Milano. Il 14 novembre 2004, due mesi e mezzo prima del voto iracheno del 30 gennaio 2005, Eugenio Scalfari scrisse su Repubblica questa frase: “Elezioni a gennaio? Come si potrà organizzare in regime di coprifuoco e in presenza di una guerra civile che miete vittime in tutto l’Iraq centrale, una campagna elettorale? Almeno un simulacro di campagna elettorale? Le liste degli aventi diritto al voto? I seggi e gli scrutatori? I comizi? Le liste dei candidati? Di tutto ciò nessuno parla”.
La campagna elettorale invece ci fu, e grazie a essa otto milioni di persone, vale a dire il sessanta per cento degli iracheni, si presentarono alle urne e votarono, evidentemente informati – a differenza di Scalfari – sia dei seggi sia delle liste dei candidati. A quel voto, come i lettori del Foglio sanno molto bene, ne sono seguiti altri due, un referendum costituzionale il 15 ottobre e poi un’altra elezione, il 15 dicembre scorso, questa volta per eleggere il primo Parlamento democraticamente eletto di tutto il medio oriente, Israele escluso. Pensate che Scalfari o qualche testa d’uovo di Repubblica ne abbia preso atto? Pensate male. Nemmeno una ruga sulla fronte. Eppure il 60 per cento del 30 gennaio 2005, meno di un anno dopo è diventato il 70 per cento. Gli otto milioni sono diventati 11 milioni. Agli sciiti e ai curdi si sono aggiunti anche i sunniti di quell’Iraq centrale che tempo fa stava tanto a cuore al fondatore di Repubblica. Nonostante tre consultazioni seguite ad altrettante partecipate campagne elettorali, centinaia di comizi, migliaia di manifesti e una robusta articolazione di liste e di alleanze politiche, Scalfari non ha offerto ulteriori riflessioni a quelle sue opinioni poi smentite dai fatti e dagli iracheni.
Con l’eccezione di Khaled Fouad Allam e del suo articolo titolato “E’ esportata, ma è democrazia”, gli ideologi dell’impossibilità di esportare la democrazia in Iraq, da Bernie Valli a Guido Rampoldi, da Vittorio Zucconi a Lucio Caracciolo, da Mario Pirani a Gabriele Romagnoli, hanno scelto di non intervenire sull’argomento, una volta che la loro tesi è stata colorata di viola tre volte in un anno prima da otto milioni di persone, poi da altri otto e, infine, da 11 milioni di iracheni. Fouad Allam è stato l’unico, anche perché in precedenza aveva tentato in tutti i modi di spiegare ai colleghi republicones che le previsioni di tipo scalfaresco non erano fondate sulla realtà, ma su pregiudizi. Pregiudizi antibushiani, se non antiamericani, e magari anche nei confronti degli arabi in quanto impreparati a poter godere della libertà e della democrazia.
Il voto in sé, anche se ripetuto tre volte in un anno, ovviamente non trasforma dal giorno alla notte un’ex dittatura brutale durata 35 anni in una società liberale, ed è perfino ragionevole pensare che la democrazia a Baghdad non sarà mai la copia conforme del modello Westminster. Però, almeno, quel voto dovrebbe far riconoscere a Scalfari & co. quanto i progressi democratici compiuti in Iraq siano straordinari e come, per la prima volta, lo scontro etnico, territoriale e religioso sia diventato politico e istituzionale. Il dibattito ora è in Parlamento tra i legittimi rappresentanti del popolo, anziché una guerra civile tra una tribù sunnita golpista che torturava i dissidenti, gasava i curdi, massacrava gli sciiti, sterminava gli arabi delle paludi, bombardava Israele e invadeva i paesi vicini. Una parolina o un pensierino sull’effetto benefico dell’intervento americano e magari anche sul positivo sommovimento dell’asfittico status quo mediorientale, dal Libano all’Egitto, da Gaza alla Siria, i lettori di Repubblica probabilmente se li meriterebbero. Se perfino un antiamericano di rango come il leader libanese Walid Jumblatt ha riconosciuto che grazie ai marines di George W “è caduto il muro di Berlino” del medio oriente, perché Scalfari non si smuove da affermazioni, come quella del 24 luglio 2005, secondo cui il “terrorismo qaedista” conta “sull’appoggio di un buon terzo della popolazione irachena”? Perché il fondatore di Repubblica non prende carta e penna per rivalutare la sua perentoria analisi secondo cui “la guerra preventiva irachena è stata oggettivamente perduta dall’America di Bush”? Libero di non farlo, ovviamente, ma in quel caso almeno aggiunga ai suoi editoriali l’avvertenza che “ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale”.
23 Dicembre 2005