New York. “Munich”, il nuovo film di Steven Spielberg sulla reazione israeliana alla strage dei suoi atleti compiuta da un commando palestinese alle Olimpiadi del 1972, non è ancora nelle sale americane – uscirà il 23 dicembre – ma ha già cominciato a far discutere commentatori e analisti di politica estera. Ieri il film è stato proiettato nelle sale vellutate del Council on Foreign Relations di New York a un pubblico di esperti di questioni israelo-palestinesi guidati da Dennis Ross, l’ex inviato di Bill Clinton in medio oriente nonché consulente della produzione. “Munich” racconta la storia del gruppo di agenti israeliani incaricati dal premier laburista Golda Meier di uccidere uno per uno i responsabili, anche al costo di sacrificare i valori della propria civiltà.
Chi l’ha visto sostiene che sia un gran bel film d’azione, ma Spielberg si pone il problema della reale efficacia di una politica che risponde alla violenza con altra violenza. Tanto che il protagonista, ovvero il capo degli agenti israeliani, alla fine non soltanto non è più convinto della sua missione, ma neppure del sionismo e di Israele stesso. La politica giusta, ha detto Spielberg a Time, dovrebbe essere quella del dialogo.
L’editorialista del New York Times David Brooks ha scritto che “Munich” è un “nuovo tipo di film anti guerra” e, in questo, innovativo, sofisticato e intelligente, “ma, quando diventa politico, Spielberg deve distorcere la realtà per farla adattare ai suoi preconcetti. In primo luogo, scegliendo una storia ambientata nel 1972, Spielberg consente a se stesso di ignorare il veleno che permea il medio oriente: il radicalismo islamico. Nel medio oriente di Spielberg non ci sono né Hamas né Jihad islamico. Non c’è alcun fervente antisemita, nessun negazionista dell’Olocausto come l’attuale presidente dell’Iran, nessuno zelota che vuole sterminare gli israeliani. Soprattutto non c’è il male. E questo è il centro della favola di Spielberg. Nella sua rappresentazione della realtà non ci sono persone così dedicate a un’ideologia assassina e quindi impermeabili al tipo di compromesso e di dialogo in cui Spielberg nutre una gran fiducia. Non ammettendo l’esistenza del male, come esiste realmente, Spielberg racconta una realtà sbagliata. Comprensibilmente non vuole rappresentare i terroristi palestinesi come i cattivi dei cartoni, ma non li ritrae per niente”.
Secondo Brooks, l’agente israeliano che nel film si pone i dubbi sulla missione e sul sionismo è l’immagine americana di ciò che un eroe israeliano dovrebbe essere, ma i veri combattenti israeliani tendono a essere più duri perché invece sono a conoscenza dell’ideologia sterminatrice dei loro nemici. Brooks conclude sostenendo che “nel medio oriente di Spielberg l’unico modo di ottenere la pace è rinunciare alla violenza, ma nel medio oriente reale l’unico modo di ottenere la pace è attraverso una vittoria militare sui fanatici accompagnata da compromessi tra gli elementi ragionevoli delle due parti”.
New Republic: “Non ha cuore Israele”
Il console israeliano a Los Angeles ha accusato il film di fare “un’equazione morale” tra i terroristi e gli israeliani. Ma la critica più dura è di Leon Wieseltier, critico del settimanale liberal, ma fortemente pro Israele, New Republic: “Il film non ha a cuore Israele” e spiega il sionismo soltanto come anti-antisemitismo: “La necessità dello Stato ebraico è riconosciuta, ma la necessità è una forma di legittimità molto debole”. Secondo Wieselter, nel film si vede la mano dello sceneggiatore Tony Kushner, “il perfetto progressista dottrinario” (l’anno scorso disse che la creazione di Israele è stata “un errore”). Ma la cosa peggiore, secondo Wieselter, è che il film “preferisce discutere l’antiterrorismo anziché il terrorismo, o pensa sia la stessa discussione. Questa è un’opinione che può avere soltanto chi non è responsabile della sicurezza di altre persone”.