Camillo di Christian Roccala Corte Suprema difende (per ora) l'eutanasia dell'Oregon

Roma. A prima vista sembra che la Corte suprema americana abbia ritenuto costituzionalmente legittima la legge dell’Oregon sull’eutanasia, il suicidio assistito dai medici che dal 1997 ha consentito di staccare legalmente la spina a più di duecento malati terminali. In realtà la sentenza di ieri pomeriggio non chiude la vicenda eutanasia né vieta al governo federale di ribaltare le leggi sul suicidio assistito approvate negli Stati dell’Unione. La sentenza della Corte è soltanto uno stop a un particolare meccanismo escogitato dall’Amministrazione Bush per bloccare il ricorso all’eutanasia. La Casa Bianca aveva provato a fermare la pratica usando “impropriamente” (ha scritto ieri la Corte) gli strumenti della legge federale sui farmaci per punire i medici che ne prescrivono l’overdose. La Corte ha stabilito che lo schema di quella legge non può essere usato.
La decisione della Corte è stata presa con un voto favorevole di sei giudici supremi e con l’opposizione di tre magistrati, ovvero i due più conservatori, Antonin Scalia e Clatence Thomas, e il neopresidente John Roberts, per la prima volta in minoranza.
Non è la prima volta, invece, che la Corte suprema si occupa di questo tema. Nel 1990 ha deciso che i malati terminali possono rifiutarsi di prendere farmaci che li tengono forzosamente in vita. Nel 1997 ha stabilito all’unanimità che nessuno ha il diritto costituzionale di morire e ha affidato agli Stati la scelta di legiferare sulla materia. Da qui la legge sul suicidio assistito, la prima del suo genere, approvata in Oregon proprio nel 1997.
Il Dipartimento della Giustizia ha iniziato nel 2001 una campagna contro la scelta dell’Oregon, con l’allora ministro John Aschroft. Il caso è arrivato alla Corte suprema nel 2004, il giorno precedente le dimissioni di Ashcroft, ma il Dipartimento della Giustizia ha seguito il dossier anche con il successore Alberto Gonzales.
La battaglia giuridica si è giocata su un aspetto puramente tecnico, sebbene il giudice Anthony Kennedy che ha scritto la motivazione della maggioranza abbia riconosciuto che la legge dell’Oregon rientra nel più ampio “dibattito politico e morale” sul diritto alla morte. Kennedy ha scritto che il dipartimento della Giustizia può perseguire i venditori di farmaci ed emanare regole per la salute e per la sicurezza, ma la legge dell’Oregon è un caso diverso perché riguarda soltanto persone particolarmente malate, affette da malattie incurabili, e alle quali almeno due dottori hanno preannunciato sei o meno mesi di vita.
Secondo la maggioranza della Corte, l’autorità sui farmaci invocata da Ashcroft e dall’Amministrazione Bush non è coerente con l’intento della legge dell’Oregon. La decisione dei giudici supremi riflette un’analoga sentenza della Corte federale d’appello del IX circuito che accusava “l’unilaterale tentativo” di Ashcroft di interferire con il diritto degli stati a decidere sulla materia. Le “pratiche mediche”, diceva la sentenza, sono “storicamente affidate ai legislatori statali”. Il conservatore Scalia si è opposto all’opinione della maggioranza, spiegando per iscritto che il governo federale ha senza alcun dubbio il potere di regolare la somministrazione delle medicine, ma “se il termime ‘legittimo obiettivo medico’ ha un senso, questo certamente esclude la prescrizione dei farmaci che producono la morte”.
La sentenza ha rilanciato la battaglia politica. I contrari sostengono che questa decisione della Corte avrà l’effetto di moltiplicare le leggi sul suicidio assistito in altri Stati. I favorevoli tirano un sospiro di sollievo, ma sanno che il tentativo dell’Amministrazione è stato fermato soltanto “per adesso”.

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