Milano. La vittoria di Hamas sembra non aver sconvolto gli americani né l’Amministrazione Bush. Alla consueta conferenza stampa sui temi che il presidente affronterà martedì prossimo nell’annuale discorso sullo Stato dell’Unione, i giornalisti della Casa Bianca hanno rivolto a George Bush soltanto una domanda, la prima, sul voto palestinese, preferendo interrogare il presidente sulle elezioni americane di novembre, sull’economia, sul programma di intercettazioni delle telefonate dei terroristi, sui disastri di Katrina e sulla ricostruzione di New Orleans, sul nucleare iraniano, sulla Corea del Nord, sull’Afghanistan, sull’Iraq e, soprattutto, sul lobbysta Abramoff.
La posizione ufficiale dell’Amministrazione è questa: le elezioni sono state un grande evento, ma un partito che ha nel suo programma la distruzione dello stato di Israele non può essere un partner di pace. Quindi Washington non tratterà con un eventuale governo di Hamas, esattamente come non ha trattato con Yasser Arafat negli ultimi anni della sua presidenza. L’apparente incongruenza della posizione americana (elogi per il processo elettorale ma non riconoscimento dei vincitori) si basa su tre elementi, ribaditi da George Bush e Condoleezza Rice: le elezioni sono una grande cosa perché comunque la gente ha mostrato di non essere contenta dello status quo, cioè della corruzione e dell’inefficienza della vecchia leadership conservatrice; Hamas è un’organizzazione terroristica che non vuole la pace; i gruppi armati non hanno posto nel processo democratico. La rivista liberal New Republic ha scritto che le elezioni a Gaza non sono state tra un movimento democratico e un gruppo terroristico, ma tra due gruppi che hanno lo stesso obiettivo strategico, distruggere Israele con metodi diversi. National Review, rivista conservatrice, ha ricordato come le finalità statutarie dei cosiddetti moderati di Fatah non sono così diverse da quelle di Hamas.
Per l’Amministrazione, la differenza è l’attuale piattaforma di governo dei due schieramenti: pacifica e volta a trovare una soluzione quella di Fatah; violenta quella di Hamas. Bush ieri ha chiesto ad Abu Mazen di continuare a guidare il suo popolo verso una soluzione pacifica e ha esplicitamente fatto affidamento sulla leadership del presidente eletto dell’Autorità nazionale palestinese. Washington però non tratterà con un’organizzazione che vuole distruggere Israele e mantiene un’ala militare, ha detto esplicitamente Bush. Condoleezza Rice ha già contattato il Quartetto di negoziatori per convocare un summit il prima possibile e, in videoconferenza, è intervenuta al seminario di Davos specificando che “la nostra posizione su Hamas non è cambiata”.
Dennis Ross, l’ex inviato di Bill Clinton in medio oriente e capo negoziatore a Camp David, ha spiegato che i palestinesi non hanno votato per Hamas perché favorevoli alla lotta armata contro Israele, piuttosto per rabbia contro i metodi di governo straordinariamente corrotti degli eredi di Arafat: “Hamas si è presentato alle elezioni invocando riforme e cambiamento, anche se non ha abbandonato ciò che chiama resistenza”. Ma, secondo Ross, Hamas ha ricevuto il voto della maggioranza perché andava incontro “ai bisogni e alle politiche locali”. Il rischio, secondo l’ex inviato di Clinton, è che l’Europa e magari anche qualcuno in America comincino a dire che bisogna rispettare il voto e provare a negoziare con Hamas: “Sarebbe un errore molto grave – ha detto Ross – gli Stati Uniti dovranno piuttosto organizzare un ampio fronte comune che isoli la leadership di Hamas, affinché capisca che non potrà raggiungere alcun obiettivo se non rinuncia a quelli inaccettabili”. Concorda Steven Cook, analista del Council on Foreign Relations: “Non facciamoci prendere in giro, specialmente voi creduloni europei, magari pensando che Hamas in qualche magico modo si sia trasformato in un’organizzazione nuova. Certamente c’è stata una evoluzione, ma resta un’organizzazione terroristica”.
E Fatah non è poi così diversa
L’editorialista del Los Angeles Times, Max Boot ha detto al Foglio che “naturalmente la crescita di Hamas è un problema, anche se non bisogna dimenticare che Fatah certo non era rose e fiori”. Entrambi i movimenti, ha ricordato Boot, “hanno una lunga storia di atti terroristici, sebbene oggi Hamas sia molto più estrema”. Boot è un neoconservatore, ma al pari del clintoniano Ross, crede che “la vittoria di Hamas sia dovuta più al disgusto nei confronti della corruzione di Fatah che al desiderio di dichiarare guerra totale contro Israele, anche se questo è certamente l’obiettivo di Hamas”.
Alla domanda sul che cosa fare adesso, Boot ha risposto senza esitazione che “Stati Uniti e Unione europea non dovranno dare nemmeno un centesimo alle istituzioni palestinesi guidate da Hamas”, anche se si augura che “l’esperienza di governo possa aiutare a moderare Hamas”. Lo scenario peggiore, secondo Boot, è la nascita di uno stato di tipo talebano in Cisgiordania e nella striscia di Gaza che da lì possa minacciare non solo Israele, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti. “Uno Stato che diventi un rifugio sicuro per i terroristi internazionali, potrebbe costringere Israele ancora una volta a intervenire militarmente e questa volta anche gli europei tirerebbero un sospiro di sollievo”. Intanto un nuovo paper dell’Heritage Foundation suggerisce di far entrare Israele nella Nato, come deterrente rispetto a ipotesi di attacco da parte dell’Iran.