No war for oil” e “No blood for oil” sono stati gli slogan battaglieri della sinistra pacifista in occasione dell’intervento militare per rimuovere il regime di Saddam da Baghdad (2003) e dal Kuwait (1991). Con o senza Onu, sono stati dodici anni di marce, fiaccolate e manifestazioni all’insegna del “No alla guerra per il petrolio” sia nei confronti di paesi dove il petrolio c’è, come in Iraq, sia dove non ce n’è nemmeno una goccia, come in Kosovo o in Afghanistan. A questa seconda potenza mondiale e ai suoi aedi politici e giornalistici non è mai venuto in mente che per accaparrarsi il petrolio è mille volte più conveniente ed efficace comprarselo, il petrolio, piuttosto che invadere un paese. Non è venuto in mente neanche di controllare le percentuali di greggio mediorientale importato dagli Stati Uniti (soltanto il 20 per cento), né di spiegare come mai Washington non abbia mai pensato di invadere il Canada, il Venezuela o l’Africa, cioè i suoi principali fornitori di petrolio.
Ma ora a paradosso si aggiunge paradosso. Bush martedì ha dichiarato guerra non all’islam, ma proprio al petrolio. Ha annunciato di voler cambiare il regime energetico statunitense e di voler porre fine alla dipendenza dal greggio entro il 2025. Ce ne sarebbe a sufficienza per scendere in piazza e urlare finalmente “No peace for oil”. Del resto non c’è niente di più spiazzante di un presidente petroliere, figlio di un altro presidente petroliere, circondato da un gabinetto di ex petrolieri, il quale annuncia un piano per sbarazzarsi in meno di vent’anni del petrolio straniero. La nuova crociata bushiana piace agli ambientalisti, ai produttori d’automobili e ai falchi americani di politica estera, perché in un colpo solo mira a non finanziare surrettiziamente i regimi terroristici, a salvaguardare l’ambiente e a sostenere l’industria. Cose più di sinistra che di destra. E infatti la sua “war on oil” è piaciuta meno alla destra tradizionale (Novak e Will, ieri sul Washington Post), alle lobby petrolifere rimaste di stucco e ai paesi produttori che, attraverso l’Opec, hanno cominciato a rumoreggiare e a preoccuparsi, subito rassicurati dall’annuncio dei solerti rappresentanti europei di voler aumentare la nostra dipendenza dal petrolio.
Il mondo non è alla rovescia, è proprio così di suo. Bush è considerato un conservatore radicale di quelli mai visti sulla faccia della terra, eppure è il presidente americano che più di ogni altro ha aumentato la spesa pubblica, più ancora di Lyndon Johnson. Con Bush sono cresciuti i programmi federali di ogni tipo, le spese per l’istruzione, le spese sanitarie, gli aiuti al terzo mondo, i fondi per la lotta all’Aids in Africa e, di conseguenza, anche il deficit. L’unica cosa che è diminuita è la pressione fiscale.
Lo stato dell’Unione 2006 di Bush ha imbarazzato la sinistra liberal, che ha faticato a trovare qualcosa veramente di destra nel suo discorso di martedì. La riconversione energetica è uno dei cavalli di battaglia dei Democratici, così come la proposta di legalizzazione dell’immigrazione clandestina (che infatti non piace alla destra). Bush ha anche annunciato nuovi investimenti su istruzione e ricerca scientifica (tranne che sulla clonazione umana) e ha pure abbozzato un’ambiziosa riforma sanitaria per ampliare il numero degli americani coperti da un’assicurazione, ovvero il sogno mai realizzato della sinistra liberal. Alla prima seduta della Corte suprema, quel giudice Sam Alito che è stato dipinto come più a destra di Gengis Khan si è opposto alla richiesta di eseguire l’iniezione letale a un condannato a morte del Missouri. Accecato dall’odio, c’è chi queste sfumature non le vede. Ma c’è anche chi, come Gianni Riotta, le vede perfettamente anche se poi scrive che Bush ha chiuso la sua rivoluzionaria bottega di politica estera per tornare “umile” come prima dell’11 settembre. Eppure proprio all’inizio del discorso noi gli abbiamo sentito dire “we seek the end of tyranny in our world”.
3 Febbraio 2006