Quella che segue è la trascrizione dell’intervista all’editorialista e analista Michael Barone sulla situazione politica americana che sarà trasmessa questa sera da Nessuno Tv alle 21 (canale 890 di Sky) (qui la prima parte)
Nel suo libro, “The Almanac of American Politics”, c’è tutto ciò che serve sapere sulla politica americana. Giusto? “Noi proviamo a metterci tutto quel che bisogna sapere. Perciò: sì”.
Prima di tutto, mi dica: a novembre chi vincerà le prossime elezioni americane di metà mandato? “Chi vincerà le prossime elezioni? Le vincerà uno dei partiti principali”. Ottimo! “Non posso fare previsioni sulle elezioni con assoluta certezza. L’interrogativo interessante verte sulle prossime elezioni, quelle per il Congresso, per un terzo del Senato, per tutta la Camera dei rappresentanti, nel prossimo novembre. E poi sarà interessante capire se gli schemi delle alleanze a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni, dall’inverno ’95-’96, resteranno validi o saranno sostituiti da qualcosa di nuovo. Veniamo da un periodo durante il quale l’elettorato si è diviso quasi alla pari tra partito repubblicano e partito democratico. I repubblicani hanno avuto un leggero margine nelle elezioni del 2000, 2002 e 2004… ma il sostegno per tutti i due partiti rimane forte, con un elettorato fortemente polarizzato e pochi elettori al centro. Si potrebbe forse paragonarlo ai risultati in Italia nelle elezioni del ’94, ’96 e 2001, dove sia la coalizione di centrosinistra sia quella del centrodestra hanno raccolto all’incirca lo stesso seguito e pochi voti sono passati da una parte all’altra, anche se dal ’96 al 2001 è cambiato il risultato, ma non per una significativa emorragia di voti. E’ la stessa situazione degli Stati Uniti da dieci anni a questa parte. Ci sono alcuni segni, credo, che vanno contro il partito repubblicano. L’indice di gradimento dell’operato del presidente Bush è il più basso da quando è in carica, sebbene non basso quanto quello di numerosi altri presidenti durante i loro mandati. Quando agli elettori viene chiesta un’opinione sul lavoro dei repubblicani del Congresso, tendono a essere molto negativi. Ma sono negativi anche nei confronti dei democratici del Congresso. Nelle consultazioni elettorali del 2005 – abbiamo avuto elezioni statali in Virginia e New Jersey, un referendum in California e l’elezione del sindaco nella città di New York – i risultati sono stati molto simili a quelli delle consultazioni di quattro anni fa, nonostante il gradimento nei confronti del presidente Bush allora fosse molto più alto. Questo tende a indicare che l’andamento delle preferenze è ancora lo stesso. E se ciò è vero, è probabile che i repubblicani continueranno a vincere con ristretti margini di voto popolare e ristretti margini nei seggi alla Camera dei rappresentanti, come nel 1996, 1998, 2000, 2002, 2004”.
Intende dire che i repubblicani guadagnaneranno seggi rispetto a oggi? “Si aggiudicheranno lo stesso numero di seggi, il numero dovrebbe essere lo stesso”.
Anche se i sondaggi… “A meno che ci sia uno spostamento significativo nelle preferenze. Ma nei sondaggi ancora non vedo sensibili variazioni. Certo, potrebbe essere successo. E che io non me ne sia accorto. Oppure potrebbe succedere in qualsiasi momento nei prossimi mesi. Ma finora non è successo. Bisogna anche tener conto del fatto che sono pochi i seggi alla Camera o al Senato effettivamente in palio, sono pochi i collegi dove c’è una competizione ravvicinata tra i due partiti. La suddivisione dei collegi, nella maggior parte degli stati, tende a garantire collegi sicuri ai membri di entrambi i partiti. Nel 2002 e nel 2004 pochi collegi sono stati vinti al di sotto del 55 per cento. Inoltre, i parlamentari candidati alla riconferma tendono a essere avvantaggiati. Per di più sono pochissimi i collegi a maggioranza repubblicana che il presidente Bush non sia riuscito ad aggiudicarsi nel 2004. Sono invece di più i collegi vinti dai democratici alla Camera, ma che nel 2004 John Kerry ha perso. Su questa base, saranno i democratici a essere più vulnerabili. Ci saranno più seggi democratici conquistati dai repubblicani che seggi repubblicani conquistati dai democratici. Se le elezioni si tenessero oggi, la mia previsione è che vedremmo risultati molto simili a quelli visti nelle elezioni nel 2004, sia nel Senato sia nella Camera. Ma non posso dire che le cose non cambieranno”.
Che cosa potrebbe causare un grande cambiamento? “Che cosa può causare un grande cambiamento… Se un numero significativo degli elettori che è rimasto con un partito negli ultimi dieci anni decidesse che non gli piace più quel partito, se sentisse di non avere più fiducia in quel partito, se magari cambiasse idea… Se per esempio una grande percentuale degli elettori di alcune zone rurali, in stati come il Missouri e l’Ohio, che hanno sostenuto il presidente Bush e il partito repubblicano con ampi margini, decidesse per qualsiasi motivo che non gli piacciono più i repubblicani. Questo potrebbe aiutare i democratici. L’altra cosa che potrebbe cambiare lo scenario è il numero di elettori. Le elezioni del 2004 si sono combattute sul numero di elettori. Le strategie di entrambi i partiti credevano che ci sarebbero stati pochi elettori indecisi, quindi il loro obiettivo principale è stato quello di portare i sostenitori a votare. Tutti e due i partiti hanno fatto incredibili sforzi per aumentare l’affluenza, e ci sono riusciti. John Kerry ha ottenuto il 16 per cento di voti popolari in più rispetto a quelli che Al Gore aveva ottenuto quattro anni prima. Un incremento importante. George W. Bush ha ottenuto il 23 per cento di voti in più rispetto a quelli ottenuti nel 2000, ovvero quattro anni prima. Un incremento enorme, storicamente significativo. Quello è stato un nuovo elettorato. Nel 2006 i repubblicani tenteranno di riportare a votare tutti quegli elettori, perché l’affluenza alle urne quando si votano soltanto i membri del Congresso normalmente è più bassa rispetto a quando si elegge il presidente. I repubblicani tenteranno di mantenere quell’afflusso alle urne, mentre i democratici proveranno con tutte le forze a portarci i propri sostenitori. Credo che il maggiore pericolo per i repubblicani non sia tanto un grande spostamento di voti verso il partito democratico, ma il pericolo che gli elettori repubblicani non siano così fortemente motivati come nel 2004”.
Perché? “Potrebbero pensare che il presidente non stia facendo un buon lavoro, che non sia un leader forte, che in Iraq non stia producendo i risultati desiderati. O magari potrebbero pensare che l’economia stia andando male. Tutti fattori che diminuirebbero l’entusiasmo per il presidente Bush e per il suo partito”.
Che cosa pensa dell’Iraq? L’Iraq è un fattore chiave nel cambiamento politico che sta analizzando? “L’Iraq è un elemento essenziale e credo presenti problemi per tutti i due i partiti negli Stati Uniti. Il problema per il presidente Bush è che i principali mass media gli sono apertamente contrari, hanno presentato l’Iraq come una situazione di violenza senza fine in cui non si raggiungono risultati. Secondo me costoro tradiscono il dovere giornalistico di riportare la verità, ovvero il fatto che abbiamo conseguito notevoli progressi nel pacificare la maggior parte della zona, nel diffondere le istituzioni democratiche in Iraq e in medio oriente e nell’addestrare le truppe irachene affinché siano in grado da sole di contrastare la violenza nel loro paese. Ma di queste cose si è parlato poco agli americani. E per il presidente Bush c’è il rischio d’essere visto come uno che persegue strategie militari fallimentari”.
Adesso sta cominciando a spiegare… “Sì, sta modificando la sua politica, ma ha sempre dichiarato che avrebbe ridotto il numero delle nostre truppe quando quelle irachene avessero raggiunto un livello di addestramento sufficiente ad agire nelle operazioni di sicurezza. E ha riaffermato questa linea anche di fronte alle richieste di alcuni democratici per il ritiro immediato delle truppe. Ritengo probabile un massiccio ritiro delle truppe. Era già stato pianificato a seguito delle elezioni irachene del 15 dicembre scorso. Penso che la cosa proseguirà nel 2006. Anche se a fine 2006 la situazione in Iraq probabilmente non sarà diversa – né sarà percepita diversamente – rispetto a oggi. E questo è un altro fattore di rischio. Anche i democratici devono fare i conti con un problema sull’Iraq: il loro partito infatti è diviso in due – sia tra le figure politiche sia nell’elettorato – tra chi vorrebbe che la guerra in Iraq si concludesse con successo e chi, più che vincere, vorrebbe che ci si ritiri subito”.
Quali sono i candidati favoriti alle prossime elezioni presidenziali del 2008, sia tra i democratici sia tra i repubblicani? “La cosa interessante sulle elezioni presidenziali del 2008 è che i candidati che sono in testa nei sondaggi per le nomination in entrambi i partiti sono in contrasto, se proprio non in disaccordo, con la propria base del partito. Hillary Rodham Clinton ha un gran vantaggio nei sondaggi come candidato presidenziale democratico. Ma ha difficoltà con l’ala sinistra del partito che vuole il ritiro immediato dall’Iraq e che, nonostante le prove dimostrino il contrario, continua a sostenere che Bush ha mentito sull’intelligence che ha preceduto la guerra – anche se ovviamente non ha mentito, anzi ha chiarito con accuratezza il contenuto di quelle informazioni. Hilllary Rodham Clinton è attaccata anche da dailykos.com, un sito web molto influente a sinistra. Insomma, esiste un contrasto tra Clinton e la sinistra. Sul versante repubblicano, i due principali candidati nei sondaggi per la nomination sono il senatore John McCain e Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York. Il senatore McCain è in contrasto con l’ala destra dei repubblicani su diversi argomenti. In alcune occasioni, e su certe questioni, ha criticato i conservatori cristiani. La sua posizione sulla regolamentazione del finanziamento delle campagne elettorali è considerata contro gli stessi interessi dei repubblicani. Ha assunto posizioni sull’effetto serra e sull’inquinamento che sono all’opposto di quelle della maggioranza repubblicana. Quindi su molti argomenti non è in linea col partito. Rudolph Giuliani è ancora più in contrasto con la destra repubblicana. Ha sostenuto la legalizzazione dell’aborto e si è opposto al divieto sull’aborto tardivo. Sostiene i diritti degli omosessuali – sebbene non il matrimonio gay – assai più di quanto faccia la maggioranza dei repubblicani. E’ in contrasto con la base. Non è certo dunque che la Clinton vincerà le primarie democratiche, o che McCain o Giuliani vinceranno le primarie repubblicane. Vedremo che cosa succederà. Certamente avranno una concorrenza interna, ma è sicuro che tutti i tre si candideranno”.
Intende dire che per loro sarà più facile vincere le elezioni generali che le primarie? “Può darsi. Ci sono democratici convinti che la senatrice Clinton sia un candidato che non può vincere. Io non condivido questa impostazione: credo che ce la possa fare ad aggiudicarsi la nomination democratica. Non è sicuro, ma è possibile. E se qualcuno di questi candidati verrà nominato ci saranno delle mutazioni nella politica del 2008, perché siamo di fronte a una polarizzazione della politica, innanzi tutto su questioni culturali, prima che economiche. E ciò che è successo dipende principalmente dalle qualità personali di presidenti come Clinton e Bush. Ma con altri candidati, assisteremo a un confronto diverso, con meno polarizzazione e un elettorato più mobile, più difficile da decifrare nella scelta tra continuare a sostenere coerentemente il partito per il quale ha votato nel 2000, 2002, 2004, oppure votare per il candidato dell’altro partito”.
Chi sarà la prossima passione della sinistra? Chi sarà il prossimo Howard Dean? “Chi sarà il prossimo Howard Dean…”. Il senatore Russ Feingold forse? “L’unico democratico che effettivamente pare si stia preparando alla candidatura alla presidenza, per quanto non sia ancora ufficiale, è il senatore Russ Feingold del Wisconsin, il quale ha votato contro la risoluzione per la guerra in Iraq e si è sempre opposto al modo in cui la guerra è stata condotta…” e ha votato anche contro il Patriot Act… “Sì. Va detto che su alcune questioni ha anche preso posizioni più a destra rispetto alla base democratica progressista. Ma è un uomo intelligente e capace, potrebbe richiamare un buon numero di sostenitori. Una delle cose che ci ha insegnato la corsa per la nomination del 2004 è che alle primarie esiste una forte corrente di sinistra tra gli elettori del partito democratico. E che costoro, per sostenere un candidato, non esigono un gran pedigree o una grande esperienza sulle questioni nazionali. Hanno scelto di sostenere Howard Dean, ex governatore del Vermont, uno degli stati più piccoli: era un medico che non aveva mai avuto un lavoro governativo a tempo pieno nell’amministrazione dello stato, fino alla morte del precedente governatore. Non aveva credenziali sul piano nazionale, men che meno in politica estera, eppure l’ala sinistra del partito democratico s’è buttata su di lui per come sapeva articolare, in modo forte e chiaro, l’opposizione a Bush, ai repubblicani, alla guerra in Iraq e in generale alla politica estera e ad altre istanze culturali. Erano pronti a seguire un perfetto sconosciuto, qualcuno di cui non avevano mai sentito parlare, sostenendolo in gran numero. Questo significa che nella sfida del 2008 esiste l’eventualità che una larga fetta dei democratici di sinistra scelga di sostenere un candidato di questo tipo. Forse il senatore Russ Feingold, forse qualcuno di cui ancora non abbiamo sentito parlare che potrebbe diventare un serio contendente per la nomination, perché quel tipo di sinistra è grande e potente al momento delle primarie democratiche ed è in grado di condizionare i toni dell’intera campagna. Howard Dean alla fine non ha vinto le primarie, ed è stato John Kerry ad aggiudicarsele, ma solo dopo che ha accettato di far proprio lo stesso tono bellicoso che Dean aveva introdotto nel dibattito durante la sua campagna. In sostanza, nel 2004 la sinistra ha condizionato il partito democratico e sarà interessante vedere se sarà in grado di farlo di nuovo. Hillary Clinton la vede diversamente dalla sinistra su diverse questioni. E questa sinistra è abbastanza forte da poter indicare un altro candidato al suo posto”.
C’è qualche nuova grande idea in America… un’idea politica che potrebbe influenzare anche l’Europa? “Non vedo in giro nuove idee politiche. Credo che George W. Bush abbia proposto diverse importanti idee politiche nella campagna del 2000. E’ riuscito in molti casi a farle diventare legge e parte integrante della politica di governo i tagli delle tasse, la legge No child left behind che ha dato credibilità all’istruzione pubblica, le nuove misure che permettono al cittadino di usare a propria discrezione i contributi del programma Medicare. Ha avuto dei buoni successi, non completi, ma considerevoli. Sulla previdenza sociale e sui conti d’investimento individuali è stato sconfitto dall’opposizione democratica, anche se la sua politica ha ricordato da vicino quella del presidente Clinton, al quale gli stessi democratici avevano dato sostegno nel ’98-’99. Ma i democratici, oggi, non sono interessati a sostenerla. E la coperta allora diventa corta, sulle idee di Bush. Del resto non vedo flusso di nuove idee neppure da parte dei democratici. Se si seguono i loro voti su certe questioni, se si ascolta ciò che dicono, ci si rende conto che tra loro sono ancora forti le tentazioni di gonfiare le dimensioni e le ingerenze del governo, senza che peraltro ci dicano quanto lo vorrebbero far crescere. Credo che abbiano intenzione di spingere l’America verso una concezione assistenzialistica di tipo europeo, ma non so fino a che punto possano riuscirci, dal momento che non hanno il potere di farlo e per ora non hanno neppure i voti per farlo. E’ una questione sulla quale non sono mai riusciti a esprimersi con chiarezza. Quel che sappiamo è che negli ultimi venticinque anni su questa sponda dell’Atlantico abbiamo confrontato due sistemi: lo stato assistenzialistico all’europea da una parte, e il modo americano dall’altra, col suo mercato del lavoro più fluido, meno regolamentazioni e meno presenza del governo. Abbiamo visto i risultati. In questo periodo negli Stati Uniti abbiamo creato 57 milioni posti di lavoro. Nello stesso periodo, l’Europa ha creato 4 milioni di nuovi posti di lavoro, anche se va tenuto conto del fatto che l’America è più grande e la sua popolazione cresce più rapidamente. La disoccupazione negli Stati Uniti è al 5 per cento, in Europa è al 10. Risultati che, credo, equivalgano a dire che la maggiore parte degli americani non vuole un welfare di tipo europeo. E credo che i democratici l’abbiano capito. Allo stesso tempo se alla gente venisse detto ‘vi daremo sovvenzioni sui medicinali con obbligo di ricetta e la cosa non vi costerà molto, se non più tasse ai ricchi’, gli elettori potrebbero pensare che sia un buona idea e il sostegno all’iniziativa aumenterebbe. In sostanza sono convinto che i conservatori siano riusciti a portare a termine alcuni dei loro programmi, forse anche la maggior parte. Ma che abbiano fallito su altri. Che non abbiano mostrato molte idee nuove. Del resto anche i liberal sembrano a corto di idee. Vogliono solo aumentare le dimensioni del governo, senza preoccuparsi dell’economia. A tutt’oggi pare ancora la loro idea dominante”.