Seguita minuto per minuto, l’assemblea nazionale del PD ha palesato tutto il suo tasso di surrealtà dove non si capisce dove sta la ciccia del discorso oppure la fuffa, l’aria fritta delle parole al vento dei protagonisti. Leggendo le analisi di oggi, non sono convinto che tutti hanno vinto e dunque tutti hanno perso in questa battaglia. Di certo è che essa è più legata al metodo (le regole e le tattiche) che al merito di un tema grande quanto un grattacielo ma ridotto – per rimanere nella strepitosa metafora del direttore Mentana – a “quanti sono rimasti nel pianerottolo anzichè prendere l’entrata o l’uscita”.
Si prova a trovare una logica in questo film della scissione ma dopo una maratona celebrale non si è capito perché ci si spacca quando la segreteria è agli atti contendibile. Sarebbe facile scrivere che tutti ci hanno rimesso ma troverei ingiusto questa equidistanza di maniera. Trovo più demenziale lo strappo di chi va via rispetto al cosidetto “muro” di Renzi. Delle due situazioni, sembra più irresponsabile andarsene adesso da parte della ex minoranza che ha votato un governo per tre anni ma non ha perso occasione di twittare, farsi ospitare sui giornali e in televisione per dire che lo ha fatto per disciplina e mai per convinzione. E non sono mancati momenti nei quali persino la disciplina di partito è andata a farsi benedire. Fossimo stati dalle parti dei grillini la minoranza del PD sarebbe andata in giro con la cenere sul capo ma – chiariamo – meglio così e viva la libertà di pensiero.
Renzio ci ha messo spesso del suo e forse va ripetendosi con rammarico quante occasioni abbia perso per controllare un partito di battitori liberi in cui ci si azzannati all’interno ma prima o poi un punto il PD deve pur metterlo anzichè sfiancare gli italiani per eccesso di melina sul campo. Da ieri comunque Renzi tira dritto dimettendosi aprendo ipso facto al congresso con i tempi previsti dallo statuto del partito con la conseguenza che la sinistra del suo partito adesso si è ritrovata – a mio parere – col cerino in mano.
L’ABC della politica che si vuole efficace ed efficiente impone una pur minima capacità di strategia ma pensare che il nuovo fronte scissionista abbia speranze di essere rilevante nel quadro politico è pure follia, al netto del nuovo contesto proporzionale che si è aperto col post referendum. La storia ci ha già pensato in molte occasioni ad insegnarci quanto la frammentazione delle aree politiche porti solo alla inconsitenza sia di consenso che di azione dopo le urne. Se poi – nel caso di specie – la vocazione maggioritaria del PD è (come affermato in modo formidabile da franceschini ieri) un dato di “realtà” della base elettorale prima della sua classe dirigente significa che tante “sinistre” nel nostro paese sono destinate all’autolesionismo.
In questo senso emerge tutta l’aggravante della (forse) ex minoranza scissionista il cui tira e molla tradisce motivazioni poco robuste: L’ala della minoranza accusa sotanzialmente l’ex segretario di copione già scritto e di congresso farsa dove l’esito è scontato. Ma nello stesso non spiegano che congresso vogliano, se desiderano giocarsi una battaglia con Renzi e sfidarlo davanti al famoso “popolo del centrosinistra” pronto a cambiare passo. Bene, si vedrà al Congresso no? Oppure il non detto è che deve sparire dal gioco Renzi?
Ad ogni modo si è visto una spaccatura più profonda fra i padri del Pd e della sinistra italiana ed è stato emblematico questa ricerca della benedizione dei fondatori laddove oggi i figli rottamatori stanno rovinando le conquiste positive del passato. Una sorta di Olimpo in cui c’è chi rimane sul monte (Veltroni, Fassino, Marino) e c’è chi scende per vie misteriose (D’alema, Bersani, Rossi) e che comunque eclissa il friabile giovanilismo dei tempi renziani. Detta altrimenti, se il centrosinistra 2.0 fa a meno dei “grandi azionisti” per poggiarsi su Renzi o Speranza allora la casa crolla. Una lezione di quanto le radici siano improtanti l’ha offerta il primo segretario del PD, Wlater Veltroni colui che tiene certamente più di ogni altro alla sua creatura politica il quale ricorda che «se la sinistra fosse stata unita non avrebbe vinto Berlusconi, se l’esperienza del governo Prodi fosse proseguita la storia avrebbe avuto un altro corso». Sgrida: «Quanto male ci hanno fatto il partito della nazione e l’idea che non ci sono differenze tra destra e sinistra? Ce lo ricorda Trump che le differenze ci sono!» Ammonisce: «Se la sinistra è minoranza sono in minoranza i diritti, le esigenze dei più poveri. La sinistra non ha diritto di essere minoranza per scelta».
Considerato il poco spessore di merito di tutta la telenovela interna al PD, che succede nella politica del fare? Siamo in perfetto stallo con la palude di un governo e un parlamento che naviga a vista. Sta qui la vera scissione che produce l’abisso incolmabile fra paese reale e palazzo.