Andiamo per punti: un mercato flessibile. “Ma ce l’avete!” diranno i nostri venti lettori pensando che, in fondo, l’articolo 18 è stato abolito e i giovani si sono abituati a una flessibilità sconosciuta ai più di quelli venuti prima degli anni 90 – o ai lavoratori pubblici, ma questo merita un capitolo a parte. Sì, vero, l’articolo 18 non esiste più, e domani potrei ricevere la notifica del mio datore di lavoro che mi lascia a casa: qui però non si parla di flessibilità in senso negativo, ma in senso di opportunità.
Partiamo dal porci alcune domande: il mercato è uguale per tutti? Certo che no, e su due livelli di analisi. Il primo, interi settori dell’economia italiana non vivono di libera concorrenza. C’era una battuta che girava su internet un mesetto fa: ce li vedreste i librai a scendere in piazza con i tirapugni per protestare contro l’avvento di Kindle? Avete capito l’antifona: gruppi più o meno piccoli, organizzati (e, perché no?, violenti a volte) riescono a tenere in scacco la politica e bloccato il proprio feudo di rendite (taxi, farmacie, notai, avvocati, altri?). Rendite, avete capito bene: tutta la ricchezza che un gruppo riesce a estrarre dal mercato in semplice forza di legge: la decima della Chiesa in epoca medievale, le rendite agrarie dei nobili, poi la rendita finanziaria dei grandi capitali e, ora, – tra le tante – i lavoratori difesi in ragione di… non sappiamo, ma insomma avete capito: difesi per legge, diritti acquisiti o altre amenità. Un mercato chiuso è – per definizione – più difficile da penetrare: e qui il giovane ha la possibilità di mettersi in coda e aspettare il proprio turno (la chiamavano ambizione) oppure chiedere che quel settore venga aperto e giocarsela ad armi pari.
Il secondo livello, i singoli lavoratori. Al momento attuale, lavoratori con meno garanzie (i giovani in generale) competono con lavoratori più garantiti (indovinate chi?) che magari hanno sottoscritto un contratto vent’anni fa in una grande azienda, e vai a toglierli di lì. Qui intervengono i sindacati: quante volte avete sentito Susanna Camusso dire che i diritti vanno estesi a tutti? Eh, sarebbe bello. Al tempo delle Crociate si diceva che la Terra Santa fosse un luogo dove scorreva miele e ricchezza per le strade e che ogni cristiano che vi avesse combattuto avrebbe trovato la via del Paradiso: a migliaia partirono per guerreggiare e, come la storia ci insegna, fu un massacro. Ora i sindacati ci dicono un qualcosa di molto simile: chiediamo più diritti per tutti e saranno strade di latte e miele, l’oro scorrerà a fiumi e la manna cadrà dagli alberi. Sì, e la disoccupazione esploderà – aggiungerei. È brutto chiedere una riduzione di diritti per un gruppo di persone a favore di un altro gruppo: maxi-pensioni levigate verso il basso per tagliare le tasse ai lavoratori, meno limitazioni alla flessibilità di mercato per aiutare tutti all’ingresso e via dicendo. La strada è quella: noi vogliamo entrare nel mercato, vogliamo competere e vogliamo costruire la nostra vita a partire dalle nostre capacità e dalla nostra voglia di metterci in gioco. Apriamo il mercato: estendiamo il contratto a tutele crescenti all’intera popolazione lavorativa, impiego pubblico incluso (non ho mai capito perché i lavoratori pubblici siano esentati a qualunque marea economica – e perché il pubblico ricorra al precariato per tappare le inefficiente dei “protetti” – ma un giorno forse mi sarà spiegato).
Ed eccoci alla seconda parte del nostro brevissimo pamphlet. Dateci un sussidio di disoccupazione universale. Niente reddito di cittadinanza (ma che è? Essere pagati perché “cittadini”?), niente casse integrazioni ordinarie e straordinarie (al netto delle ultime riforme) e niente sussidi di stato per salvare aziende bollite, brasate o morenti: no, un solo sussidio, per tutti. Esempio: 1000€ al mese a chiunque sia nella condizione di “disoccupato” (alla ricerca attiva di lavoro, iscritto alle liste di collocamento, …), max 18 mesi, con termine del sussidio se si rifiutano più di due proposte di lavoro. È solo un’ipotesi, ma immaginate cosa accadrebbe: l’esercito di disoccupati attuali avrebbe una boccata di ossigeno e la possibilità di studiare, formarsi e cercare lavoro senza arrabattarsi nel nero e nell’occupazione sotto-pagata. C’è una forma simile di sussidio di disoccupazione (la Naspi), ma applicandosi solo a chi ha già contribuito per un periodo più o meno breve di lavoro lascia fuori i neo-entranti: creiamone una, una sola, semplice da ottenere e altrettanto semplice da perdere se non si rispettano le regole. Un’azienda deve diminuire l’organico per tagliare i costi fissi e reinvestire in nuove linee di produzione? Lo faccia, ai lavoratori ci pensa la società per un periodo congruo a riformarsi e reinserirsi nel mercato. Io voglio formarmi bene per cambiare settore? Esco dal mercato del lavoro e con i soldi del sussidio mi pago un corso di formazione. Sono un giovane neo-diplomato/neo-laureato che non ha mai lavorato in vita sua? Il sussidio mi sostiene per un periodo congruo per cercarmi un lavoro. E via dicendo, avete capito.
Alessio Mazzucco