MillennialsImparare di continuo per non farsi sommergere dalla trasformazione digitale

Ivan Stammelluti è tra i co-fondatori di ASAP, un nuovo spazio di coworking dedicato alle tecnologie di realtà aumentata e virtuale. Sabato 25 eravamo da loro per seguire un convegno dedicato alla ...

Ivan Stammelluti è tra i co-fondatori di ASAP, un nuovo spazio di coworking dedicato alle tecnologie di realtà aumentata e virtuale. Sabato 25 eravamo da loro per seguire un convegno dedicato alla trasformazione digitale nel mondo e nel Paese Italia, e abbiamo deciso di fare due chiacchiere con lui.

Che cos’è ASAP?

ASAP È il primo polo che aggrega le competenze in italia in ambito di realtà virtuale e realtà aumentata, nonché tutte le tecnologie hardware che sono collegate a questi due filoni tecnologici. La logica di ASAP è quella di funzionare come un coworking, anche se in realtà il modello di business è completamente diverso. La logica infatti è stata di creare un polo che dia visibilità a questi temi per fare capire alle aziende a cosa servono queste tecnologie. Lo scopo è aggregare persone che operano con questi strumenti al fine di dar loro più visibilità. Il valore per ASAP si genera quando queste aziende creano dei business addizionali nati grazie a questa aggregazione, senza la quale non sarebbero stati creati.

Perché proprio la realtà virtuale e aumentata?

Credo che ci siano tantissimi filoni tecnologici specifici in diversi settori. Ci sono però almeno tre ondate di tecnologie abilitanti che in realtà non impattano sul singolo settore ma penetrano in tutto il mercato: queste sono l’intelligenza artificiale, la blockchain e la tecnologia che mischia realtà fisica e realtà ricostruita digitalmente. Si tratta di realtà digitale creata dall’uomo che si integra con quello che si vede nella realtà in cui viviamo, attraverso vari dispositivi che vanno dai cellulari, ai visori ed in futuro negli occhiali e nelle lenti a contatto. Abbiamo investito in quest’ultimo filone tecnologico perché è quello più precoce e nel quale non esiste ancora un market leader.

Parlando dell’Italia, quali sono secondo te le sfide attuali che stanno affrontando gli imprenditori che operano con il digitale?

L’ossatura imprenditoriale e aziendale italiana non ha consentito di far dialogare i grandi operatori della trasformazione digitale con le aziende. Questo passaggio avviene più agevolmente con un tessuto economico dove vi sono grandi imprese clienti e fornitrici. L’Italia, che invece è composta in gran parte da piccole aziende, fa fatica a compiere la trasformazione digitale dialogando con le grandi multinazionali tecnologiche. Il problema dimensionale che abbiamo non consente di effettuare i grandi investimenti che invece servirebbero. Un secondo problema, questa volta trasversale, riguarda il fatto che la trasformazione digitale richiede un cambio di comportamento di chi sta ai vertici delle organizzazioni. Le nuove tecnologie richiedono un mindset diverso relativo a come concepire e organizzare il lavoro in azienda, in virtù del fatto che questa è diventata digitale. Vi sono molte aziende che hanno internalizzato le tecnologie ma non hanno ripensato al modo di organizzare il lavoro. Questa è una trasformazione difficile e lenta da effettuare.

Da un punto di vista politico-istituzionale vi è un freno, oppure semplicemente si tratta di un ambiente più lento che crea dinamiche divergenti tra le necessità e quello che effettivamente si può attuare?

Secondo una teoria generale le istituzioni pubbliche sono le ultime e le più lente a reagire agli sviluppi delle tecnologie, dopo gli individui e le imprese. Non credo però che, partendo da questo presupposto, l’Italia sia più lenta rispetto ad altri paesi, e non credo che stia subendo un rallentamento di questi fenomeni per motivi istituzionali. Sta però vivendo un rallentamento più generale del tessuto economico, che impedisce alle aziende di dedicare particolari investimenti sulle tecnologie; da questo punto di vista, subiamo più di altri paesi gli effetti di decisioni poco sagge sulla politica economica.

I millennials saranno la generazione che prenderà davvero in mano le tecnologie o saranno una generazione di passaggio che verrà superata dai nativi digitali?

Personalmente credo che l’ambito di dominio dei millennials sia quello della tecnologia mobile e web 2.0, dove credo abbiano una marcia in più. Credo però che il paradigma tecnologico quotidiano cambierà molto nei prossimi 5 anni. Nel momento in cui posso delegare delle attività ad un’intelligenza artificiale programmabile da me stesso così che, di giorno in giorno, possa insegnarle a fare delle attività di cui non mi voglio più occupare, e nel momento in cui io potrò effettivamente fruire di una realtà virtuale associata a quella reale, questo provocherà un impatto paragonabile, in termini di trasformazione, a quello sancito dall’avvento del mobile e web 2.0. Probabilmente dunque il millennial non avrà più quel vantaggio competitivo. Potrebbe essere una generazione di passaggio nel senso che ora gode di un vantaggio competitivo per questo specifico momento. Se fra 5 anni il paradigma tecnologico sarà completamente diverso, il millennial subirà gli stessi svantaggi che subisce ora la persona della generazione precedente alla nostra. Questa “sostituzione” e competizione tra generazioni avverrà sino a che non ci sarà un rallentamento nell’evoluzione tecnologica. Il millennial, in sintesi, potrebbe avere un vantaggio solo momentaneo.

Sul versante dell’istruzione e dell’apprendimento delle nuove tecnologie, cosa devono insegnare la scuola o le aziende stesse?

Credo che l’apprendimento interno all’ azienda sia un passaggio inevitabile. Rispetto al passato, se ora si vuole transitare da una professione a un’altra la competizione è tale che per diventare uno specialista serve moltissimo tempo. L’istruzione fa difficoltà a seguire i livelli di specializzazione richiesti dal mercato per essere competitivi in un dato settore. E’ giusto dunque che l’azienda ti insegni caso per caso a usare gli specifici strumenti che servono, non si può più fare affidamento sull’Università. Il sistema scolastico ci mette molto più tempo ad introdurre ed a insegnare certe competenze rispetto ai tempi richiesti dal mercato. E’ inevitabile dunque che il sistema istruttivo tecnico vada sempre più a finire nel privato, nei corsi di specializzazione o nelle aziende. Un ambito in cui può intervenire la scuola è quello delle soft skills: queste conteranno sempre di più rispetto alle competenze tecniche, ma sono poco note al sistema italiano. E’ importantissimo potenziare l’apprendimento di capacità personali e trasversali che possano migliorare la performance della persona qualunque sia l’ambiente di lavoro in cui si troverà.

E l’alternanza scuola lavoro?

L’alternanza scuola lavoro, se avviene nei giusti ambienti, può essere utile. Non ha senso prendere uno studente del liceo classico e chiedergli di fare panini tutto il giorno (con tutto rispetto per chi li fa): avrebbe molto più senso affiancarlo a un manager di un fondo, un’azienda o di una qualsiasi realtà imprenditoriale e fargli apprendere, senza necessariamente fare qualcosa, ma osservando l’attività quotidiana in un ambito professionale.

Alessio Mazzucco e Leonardo Stiz

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