L’immigrazione occupa un posto di rilievo nel dibattito pubblico e politico, senza tralasciare la sua importanza nell’economia italiana ed europea. Non è possibile nascondere il popolo degli immigrati perché costituisce, a vario titolo, una forza lavoro indispensabile per la società. È un fenomeno sociale che non trova un’adeguata comprensione nella politica e spesso viene usato soltanto per scopi meramente propagandistici. La realtà sociale non viene accuratamente esaminata con quelle analisi approfondite e nell’immaginario collettivo resta soltanto la paura del ‘diverso’ o addirittura dell’intruso.
È un costante aggiornamento rivolto agli addetti ai lavori per confrontarsi con parole come dialogo, identità, sicurezza, criminalità. L’immigrazione è un argomento che non può essere banalizzato e nemmeno affontato in modo superficiale: è complesso e ricco di implicazioni, coinvolge il singolo e la collettività, genera incontro e dialogo, paura e rifiuto.
Per cercare di analizzare la situazione si svolge a Roma, sabato 24 febbraio 2018, l’edizione 2018 del Forum Europeo presso la Biblioteca Nazionale Centrale. Il convegno “Lo straniero. Inquietudine soggettiva e disagio sociale nel fenomeno dell’immigrazione in Europa”, organizzato dall’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, dall’Eurofederazione di Psicoanalisi e dalla Scuola Lacaniana di psicoanalisi, in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e l’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza, consente di sviluppare un serio confronto a beneficio dei rappresentanti di enti e associazioni impegnate in prima linea nel settore sociale dell’immigrazione, senza dimenticare le organizzazioni internazionali (Fao, Medici senza Frontiere, Caritas, Comunità di Sant’Egidio) le istituzioni, le personalità della politica, della cultura e dell’arte.
C’è una forte esigenza di mettere a disposizione un significativo investimento di denaro per agevolare l’inclusione sociale, poiché è una valida risposta, se non addirittura l’unica, in grado di diminuire quelle pericolose frizioni sociali. La crisi finanziaria mondiale che ormai investe a pieno titolo il Vecchio Continente non deve lasciare in secondo piano l’integrazione dei popoli. Se vogliamo puntare verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa è necessario rispettare le culture di tutte le etnie presenti nelle diverse nazioni. Il rispetto e la condivisione devono diventare protagoniste del XXI secolo. Le prospettive economiche non possono essere l’unico motivo di destabilizzazione sociale perché al centro dell’universo c’è la ricchezza umana delle persone. Tenere sotto controllo la finanza mondiale e tralasciare il capitale umano significa non comprendere i veri valori alla base di una società.
Con Fabio Ranchetti, docente di Economia Politica alla Cattolica di Milano ed Economic Geography presso la statale di Milano, vogliamo conoscere i diversi ruoli dell’immigrazione nel mondo del lavoro proiettato nel XXI secolo. È del tutto evidente che sarà necessario comprendere accuratamente le diverse variabili sociali ed economiche, proprio per valorizzare questa risorsa umana da impiegare nel mondo produttivo.
Che ruolo economico assumerà l’immigrazione nel tessuto sociale?
A mio giudizio, confermato da molteplici studi recenti, l’immigrazione potrà e dovrà, volenti o nolenti, assumere un ruolo sempre maggiore. I migliori studi economici ed econometrici, relativi a differenti paesi sviluppati, dimostrano che questo ruolo economico è più che positivo. Se guardiamo alla storia passata, compresa quella contemporanea, abbiamo l’esempio degli Stati Uniti d’America, che hanno costruito la loro fortuna economica e la loro potenza mondiale sfruttando abilmente l’emigrazione: sono, nella stragrande maggioranza dei loro abitanti, un paese di emigrati. Se guardiamo all’Italia, anche le recenti analisi e i dati forniti dall’attuale presidente dell’INPS, Tito Boeri (non a caso un economista del lavoro), confermano il valore economico positivo dell’emigrazione in Italia.
Come inserire queste diverse professionalità nelle opportunità lavorative?
Questo è tema che riguarda il mercato del lavoro e un compito soprattutto dei politici, che dovrebbero ovviamente farsi guidare da forti e intelligenti principi di politica economica, in coerenza e in rapporti stretti con le politiche europee che, anche su questo piano, vanno rafforzate e rese più eque (eque, nel senso di non privilegiare o danneggiare alcuni paesi a vantaggio o a scapito di altri), proprio come dovrebbe avvenire nel campo delle politiche fiscali.
Perché è più semplice demonizzare anziché valorizzare?
Ritengo che la causa (o, meglio, una delle cause più importanti) di ciò sia dovuta all’ignoranza delle vere opportunità, ma anche dei veri problemi (che quindi non vengono affrontati in maniera adeguata, e pertanto non vengono superati o, almeno, ‘limitati’ e controllati), posti da questi nuovi flussi migratori. Per valorizzare e guidare questi processi, storicamente e socialmente inevitabili, bisogna prima conoscere e quindi studiare e capire.
La demonizzazione deriva (quasi) sempre dall’ignoranza delle questioni e delle loro ‘giuste’ proporzioni, così come la valorizzazione deriva dalla conoscenza delle effettive condizioni dei migranti e delle loro aspettative e competenze.
In che modo è praticabile una seria integrazione economica con la quale trasformare l’immigrazione in una ricchezza a beneficio della popolazione?
È del tutto evidente che, come per la politica fiscale o la politica estera, occorrono politiche del lavoro e politiche industriali molto più coordinate a livello europeo. Affinché le relazioni industriali nei singoli paesi e a livello europeo fossero più efficaci, anche i sindacati e le organizzazioni confindustriali dovrebbero avere una (molto) maggiore integrazione.
La paura non serve a crescere ma può bloccare processi di sviluppo. Come rispondere a questa situazione sociale e quali reazioni devono essere intraprese nel breve periodo?
La paura dell’altro, dello straniero che viene nel nostro paese (villaggio o città che sia), il senso di precarietà nelle esistenze dovuto a mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro qui da noi, ma causati da mutamenti nelle condizioni economiche e sociali che avvengono in altri paesi, magari lontanissimi e di cui conosciamo molto poco, blocca certamente i processi di crescita sia individuali (a livello psicologico profondo) sia collettivi (incapacità di ‘fare squadra’, come si suol dire). Noi economisti traduciamo e sintetizziamo questi sentimenti – che stanno alla base dell’economia (dei suoi successi e dei suoi fallimenti, della crisi e della crescita, individuale e collettiva) – nel termine “aspettative”. Se sono positive, tutto va bene, gli investitori investono, i consumatori comprano quantità maggiori di beni, risparmiano di meno; se sono negative, gli investimenti languono e i consumatori, spaventati, risparmiano quel poco che hanno ‘per tempi migliori’ che, se non spendono, non arriveranno mai. Quindi, il problema economico (e politico) diventa quello di creare o generare aspettative positive. Non è una cosa facile e non è un compito specifico o esclusivo degli economisti: è un compito politico e culturale in senso ampio. Posso solo fornire qualche spunto, indicare una linea generale sulla quale, a mio giudizio, bisognerebbe muoversi molto di più di quanto non si faccia, soprattutto in Italia, dove si registra un declino culturale maggiore che negli altri paesi europei (e, sempre a mio giudizio, questa situazione non è una delle cause minori del fatto che da noi, in Italia, la crisi economica sia più grave e più lunga). Bisognerebbe, aumentando il finanziamento dell’istruzione pubblica ma anche quella privata, cercare, attraverso la cultura umanistica, scientifica e artistica, di avvicinare le persone, le classi sociali e le nazioni. Certo, non possiamo trasformare la società in un campus universitario ma questo modello di integrazione sociale, nel rispetto delle differenze personali, religiose, psicologiche, fisiche, andrebbe molto più privilegiato di quanto non avvenga soprattutto in Italia. I problemi che nascono da tradizioni e culture troppo diverse non possono che essere, se non risolti (cosa forse impossibile), almeno riconciliati cioé gestiti al meglio solo tramite pratiche sociali in cui l’economia non è mai disgiunta dalla psicologia, dalla scienza e dall’arte. Questo è l’insegnamento della migliore economia politica, da Adam Smith a Maynard Keynes. Non a caso viene a coincidere con quello della psicoanalisi di Freud (di cui Keynes era un grande ammiratore).
Francesco Fravolini