Il mondo del lavoro non è stato mai sufficentemente collegato a quello della scuola creando problemi ai giovani laureati o diplomati; il percorso formativo deve essere adeguato alle esigenze del mercato occupazionale. Questa grave lacuna ha sempre caratterizzato in maniera negativa l’Italia costringendo i giovani alle classiche scelte di impiego.
È necessario comprendere l’importanza del collegamento tra i due mondi (formazione e lavorativo) specialmente in questo periodo storico nel quale stiamo assistendo a un cambiamento rivoluzionario delle professioni. Le differenti richieste di lavoro che avanzano prepotenti nella società trovano impreparati i giovani; sono lasciati senza un’opportuna guida a scegliere una formazione didattica pertinente ai lavori del XXI secolo.
La cultura è un valore aggiunto che può aiutare i giovani a comprendere il livello di innovazione ormai presente nel mondo del lavoro. A chiarire alcuni aspetti è Antonella Salvatore, Direttore del Centro di Career Services della John Cabot University.
Che ruolo assume la cultura nel mondo del lavoro?
La cultura è l’unico mezzo che consente di capire il lavoro, che permette di entrare nel mondo del lavoro e, cosa non meno importante, di restarci. Oggi l’Italia appare come un paese a compartimenti stagni: il mondo della cultura e quello del lavoro raramente si incontrano e raramente comunicano e costruiscono insieme. Il mondo accademico è ancora molto lontano dal mondo professionale e aziendale, lo ribadisce anche l’OCSE nel suo Diagnostic Report di ottobre 2017. L’università italiana fatica a stare dietro ai cambiamenti, ci sono lauree che oggi non generano più posti di lavoro e, di contro, ci sono nuovi lavori che necessitano di nuova formazione e nuove skills. A pagina 94 del suo rapporto l’OCSE sostiene che l’Italia ha un forte skills mismatch: il 39% delle risorse umane tra i 25 ed i 65 anni manca delle skills tecniche necessarie per far fronte alla società e ai suoi cambiamenti. Ecco quindi che diventa fondamentale il ruolo della cultura e fondamentale la collaborazione tra chi fa formazione ed il mondo professionale. L’obiettivo di divisioni come la mia (career services) all’interno delle università straniere è proprio quello di fare da ponte tra aziende e accademia: le aziende entrano in università per raccontare cosa fanno, per dare consigli ai ragazzi, per fare colloqui e ricercare talenti per stage oppure per lavoro. Proprio la scorsa settimana abbiamo organizzato in John Cabot University il Career Fair, la giornata che porta le aziende in università: abbiamo ospitato 70 rappresentanti di azienda che hanno fatto colloqui ai nostri studenti e laureandi per posizioni di stage e di lavoro, e che hanno orientato i ragazzi, dando loro consigli sulle strade da scegliere. Per noi queste occasioni di incontro permettono agli studenti di acquisire una conoscenza del mondo professionale fin da giovanissimi, consentono ai ragazzi di fare esperienze, di capire i meccanismi che regolano il mondo del lavoro unitamente alla necessita di avere una attitudine da problem solver. Giocando con le parole di questa domanda, la cultura è importante nel mondo del lavoro ma è altrettanto importante la cultura del lavoro.
La tecnologia come può migliorare la produzione?
La tecnologia consente volumi più alti di produzione, consente velocità, efficienza e riduce la possibilità di errore; indubbiamente, grazie alla tecnologia i lavoratori possono lavorare un maggior numero di prodotti, servizi ed informazioni e in maniera più veloce. Tuttavia, affinché la tecnologia porti davvero un miglioramento, deve essere studiata ed applicata e qui torniamo a quanto detto prima. Oggi abbiamo ancora molte risorse umane incapaci di usare la tecnologia, incapaci di gestirla e di utilizzarla e questo porta al noto skills mismatch di cui ho parlato prima, a quel 39% che oggi non ha le competenze tecniche per affrontare le nuove sfide. Abbiamo bisogno di creare percorsi formativi adatti ed abbiamo bisogno di investire molto di più nella formazione delle risorse, anche di quelle che non sono più giovanissime. Nella mia esperienza, noi mondo della formazione collaboriamo con le aziende anche per questo. Come direttore del career services gestisco il rapporto con 550 aziende in Italia, che non solo vengono ai Career Fair ma che mi danno anche chiare indicazioni sulle figure professionali che ricercano, sulle nuove necessità che sorgono nel mercato; sulla base di questo abbiamo strutturato anche percorsi adatti ai laureati e agli executive. Ad esempio, abbiamo portato executive e professionisti in aula, per imparare delle nuove strategie digitali e per apprendere della fruizione digitale, di come oggi i consumatori fruiscono dei servizi in maniera diversa.
Con il digitale si stravolge l’occupazione. Quale professioni sono più a rischio e come ricollocarsi nel mondo del lavoro?
Il digitale rappresenta solo una parte del cambiamento tecnologico che noi stiamo vivendo e che va sotto il nome di digital transformation. La paura di tutti è che le macchine sostituiranno l’uomo. A mio avviso, l’uomo non può e non deve concorrere con le macchine, deve semplicemente porsi su un piano diverso. Indubbiamente le macchine sono più veloci, più efficaci, capaci di processare maggiori volumi ed unità ma esse non hanno intelligenza emotiva e fattore umano, elementi che oggi sono importanti in numerosi ambiti lavorativi. Come detto prima, la formazione deve aiutare gli individui da un punto di vista di costruzione di technical skills, competenze tecniche, per far fronte alla trasformazione digitale. Ma la stessa formazione deve anche aiutare, (in particolare i giovani), nelle soft skills, nelle competenze trasversali e comportamentali a cui si dà poco valore e che sono invece cruciali perché rendono gli individui unici e diversi gli uni dagli altri. L’orientamento al lavoro (che non è la banale costruzione del curriculum vitae ma un processo molto più complesso), rappresenta un passaggio fondamentale per permettere allo studente di diventare professionista: lo studente capisce i meccanismi del lavoro, impara che quando entra in un posto di lavoro deve dare un contributo, apprende la lettura del contesto, inizia a contribuire alla risoluzione dei problemi. Quando orientiamo i ragazzi spieghiamo loro che devono capire la propria unicità prima di proporsi sul mercato e porsi la domanda: perché l’azienda dovrebbe assumere me e non qualcun altro? L’unicità che ogni individuo è in grado di portare nel lavoro, quel saper essere, è quello che ci permetterà di sopravvivere alle sfide future e alle macchine. Certo, alcune professioni sono a rischio perché le macchine hanno sostituito gli uomini ma è anche vero che ci sono nuovi lavori che nascono e che nasceranno, lavori che portano a gestire servizi customizzati per clienti sempre più esigenti. Invece di essere sempre e solo preoccupati di quello che le macchine possono portarci via e di rinchiuderci dentro un posto “cosiddetto fisso”, cercherei di lavorare sulla formazione delle skills tecniche e di quelle soft, per creare nuovi lavoratori, più evoluti, per ridurre il mismatch nel paese e per creare una attitudine entrepreneurial. Invece di continuare a pensare che la società è fissa (ossessionati dal posto fisso appunto), pensiamo a formarci e a tirare fuori il nostro “saper essere” per affrontare il cambiamento.
Francesco Fravolini