Onnipresente nelle statistiche relative al mercato del lavoro, totalmente assente dal dibattito, i suoi temi e protagonisti. Il Parlamento eletto il 4 marzo ha l’età media più bassa della storia della Repubblica: alla Camera 44,33 anni, al Senato 52,12. Tra i 144 deputati che hanno meno di 35 anni, inoltre, 97 sono pentastellati e, sul totale degli eletti 5stelle, ben il 65% non ha mai ricoperto un incarico politico.
Questi numeri mettono nero su bianco un dato generazionale rilevante: l’unica rappresentanza che la nostra generazione avrà in Parlamento sarà offerta dal MoVimento 5 Stelle, che ha una visione regressiva del potenziale sviluppo economico del nostro Paese e i cui rappresentanti sono inesperti – e orgogliosi di esserlo. Significa che nel dibattito sui temi a impatto generazionale, politiche che per definizione sono sottese ad ogni ragionamento sul futuro del Paese, il punto di vista e gli interessi della nostra generazione saranno facilmente ignorati.
Le ragioni della progressiva scomparsa dei giovani dalla rappresentanza sono senza dubbio molteplici, ma credo che sia soprattutto la loro evaporazione dalla sinistra, ampiamente intesa, a indicarne la ragione profonda, perché alla continua erosione della capacità organizzativa della sinistra è corrisposta quella giovanile.
Prima di sparire dal Parlamento, siamo spariti dalle piazze. Anche a questo si deve la leggerezza con cui buona parte della classe dirigente globale ci ha definito, per anni, generazione bruciata: dopo L’Onda, che nell’autunno 2008 ha portato in piazza decine di migliaia di studenti su tutto il territorio nazionale, avvicinando la mia generazione alla politica, è stato il nulla. Non ci sono più grandi organizzazioni studentesche, politiche o associative in senso ampio, la società oggi è disintermediata e i legami tra quotidianità e istituzioni hanno finito per allentarsi completamente.
Sono passati dieci anni dall’Onda, nel frattempo sono passate due generazioni di studenti medi e universitari che hanno completato i propri studi senza alcun richiamo politico identitario e, soprattutto, organizzato. In questi dieci anni, la sinistra non ha saputo reagire e svegliarsi dal torpore organizzativo, mentre si è compiuta la privatizzazione della rappresentanza d’interessi. Oggi possiamo dire, senza esagerazioni, che un’ampia maggioranza dei seggi in Parlamento è controllata da soggetti privati privi di controllo democratico e che questo è accaduto perché si è acuito il paradosso della fuga dalla politica quale rifugio per reagire all’assenza della stessa, alla sua incapacità di formare una visione e rappresentarla prendendo decisioni.
La fuga è il prodotto di una rabbia sociale che cresce ancora nascosta. Invece di esprimerla pienamente dovremmo cercare di organizzarci, partendo sì dalla protesta, ma andando oltre ad essa, per cogliere gli elementi sociali e tecnologici che ci sono propri e ci hanno formati, interpretarli nel segno di una visione politica per il futuro e, in questo modo, unire chi in quella visione si riconosce. Esistono processi che ci rendono una generazione non soltanto anagrafica, ma anche culturale: la digitalizzazione della società, la ventata di individualismo che dagli anni ‘80 soffia a più riprese e ha intriso la nostra formazione, rendendoci la generazione più liberale di sempre, ma anche quella meno incline a ragionare collettivamente. E poi i fatti che influenzano negativamente il nostro immaginario: il G8 di Genova, evento traumatico per il movimentismo, l’11 settembre e la nuova ondata di terrorismo, un quadro di relazioni internazionali imprevedibile e difficile da comprendere, la Cina in piena ebollizione economica e l’Unione europea in piena crisi d’identità. Abbiamo avuto una giovinezza priva di chiari riferimenti politici identitari e, soprattutto, stiamo vivendo il trauma collettivo di fronte al crollo dell’idea che, seguendo le regole, sarebbe stato relativamente automatico essere in grado di costruirsi un progetto di vita.
Se trasliamo questi elementi nella realtà, rendendoli il collante e la ragione per associarsi e avanzare istanze comuni, avremo liberato i movimenti giovanili ancora esistenti dalla loro autoreferenzialità, ne avremo creati di nuovi tornando capaci di mobilitarci, di stupire e saper affrontare una dialettica con le istituzioni che porti a risultati concreti.
La sinistra, che sull’organizzazione delle masse si fonda dal principio, ha perso tutto esattamente quando ha smarrito la capacità di organizzazione e, contestualmente, ha rinunciato a proporre una visione d’insieme per la società del domani che fosse sensata e comprensibile a tutti. Per quanto sembri un tema distante, la prepotenza della sconfitta della nostra generazione, da sinistra, è diventata concreta quando abbiamo accettato passivamente la retorica per cui abolire il finanziamento pubblico ai partiti è salutare anziché profondamente nocivo per il grado di inclusione sociale e democraticità del nostro contesto politico. Prima ancora, siamo stati sconfitti quando non abbiamo reagito con sufficiente convinzione all’idea che le decisioni del primo partito italiano potessero essere prese da un’azienda di comunicazione estremamente opaca. Se 97 Deputati Under 35 su 144 rappresentano quegli interessi e accettano di obbedirvi senza condizioni, pena il pagamento di 100mila euro, possiamo dire che la nostra generazione sia rappresentata in Parlamento?
Eppure, reagire è possibile. Lo scorso gennaio, Vienna è stata colorata da migliaia di studenti socialdemocratici per protestare contro i tagli al welfare studentesco del governo di destra; in Germania è stata la giovanile di partito (perdente) ad essere protagonista per mesi interi della protesta contro la grande coalizione; in Regno Unito, Corbyn riconosce costantemente che buona parte del suo successo alle primarie dei laburisti e poi del 40% alle elezioni è dovuto alla mobilitazione del movimento giovanile Young Labour. Mentre in Italia venivano cannibalizzate, in questi paesi le strutture democratiche sono state protette e nutrite, i movimenti giovanili hanno così potuto ripensarsi e continuare ad essere vitali e rappresentativi: innovando i metodi di mobilitazione, mantenendo integra la propria identità.
Gli elementi che hanno portato al rifiuto manifesto della nostra generazione di associarsi per portare avanti le istanze di cambiamento sono numerosi. Ma quelli che possono oggi fornirci nuova capacità organizzativa non sono meno importanti. Abbiamo la possibilità di disporre di nuovi modi per rendere un’organizzazione giovanile finanziariamente sana e dotata di capacità di azione e non si tratta di una sfida secondaria. Ma la mobilitazione per temi, più che bandiere, è un elemento che ci accomuna generazionalmente e che tutti noi cogliamo. Può diventare un magnete per attivisti anziché un limite, se solo si pensa ai grandi strumenti di delega che la tecnologia ci permette oggi di impiegare per condurre una campagna, a partire da quelli già mainstream come l’app Slack, sdoganata da Bernie Sanders nelle primarie americane.
Siamo la generazione più internazionale di sempre: più collateralmente che per scelta, siamo abituati alla relatività delle distanze e all’idea che le grandi sfide siano globali. Da internazionali, dobbiamo diventare internazionalisti, sviluppando le reti di attivismo internazionali esistenti e dotandole di una nuova spontaneità. Rendere il motto “pensare globale, agire locale” un collante molto più concreto di quando fu coniato è oggi possibile. L’austerity e la crescita delle diseguaglianze non sono stati elementi caratterizzanti dell’ultimo decennio solo per noi: le loro conseguenze hanno alimentato paura e arroccamenti, ma possono diventare la spinta a unirsi e protestare collettivamente per interessi (e timori) condivisi a livello internazionale e che per questo possono essere combattuti efficacemente solo a livello transnazionale.
E’ partendo dalla nostra generazione che si possono rifondare le strutture democratiche profonde della nostra società.
L’onda del 2008 si è rivelata purtroppo non così lunga. A 50 anni dal 1968, non dobbiamo soltanto chiederci cosa ne resta, ma soprattutto cosa ne sappiamo. Nel 2018, sparendo dal Parlamento, dobbiamo rianimarci, rifiutarci di astenersi dal dibattito politico e impossessarci nuovamente dei temi che determineranno la nostra possibilità di perseguire le nostre aspirazioni. Le giovani generazioni avrebbero tutta la rabbia e l’amarezza necessarie per agitarsi: ora servono la presa di coscienza e l’ottimismo della volontà per organizzarci e diventare una generazione politica e non solo anagrafica.
Elisa Gambardella