MillennialsSfera Ebbasta al primo maggio è un evento politico decisivo

A una settimana dal Concertone del primo maggio non è ancora del tutto calata la polemica intorno alla presenza di Sfera Ebbasta. Sebbene vi siano state diverse critiche, soprattutto sui social, mi...

A una settimana dal Concertone del primo maggio non è ancora del tutto calata la polemica intorno alla presenza di Sfera Ebbasta. Sebbene vi siano state diverse critiche, soprattutto sui social, mi pare che buona parte degli interventi in difesa del cantante trap si fermino alla superficie di un autore che proviene dalla periferia, si è fatto da solo, non teme di esibire la propria ricchezza (ed evita l’ipocrisia di tanti artisti più impegnati).

Non paiono mai emergere due aspetti ben più rilevanti per comprendere il significato della sua esibizione: la disintermediazione della musica e la sua definitiva spoliticizzazione.

Sfera Ebbasta è il M5S della musica: canta quello che i giovani vogliono sentirsi cantare (soldi, droga, sesso facile), e non ha nessuna intenzione di educare o coltivare il proprio pubblico. Ha raggiunto la notorietà partendo da Youtube, senza passare per intermediari specializzati, secondo quel meccanismo di comunicazione diretta che ha costruito le carriere delle fashion blogger, le star su instagram, gli influencer, prodotto altri fenomeni pop come Fabio Rovazzi. Il gusto popolare per il popolo, così come la politica del Movimento è fatta da inesperti per inesperti, creando un enorme cortocircuito in cui nessuno sa giudicare del valore di ciò che viene prodotto e consumato, ed è spaventoso notare che si può trattare di un programma di governo o di una canzone, il principio è lo stesso.

Non sono un amante dei cantautori, né un difensore della tradizione; per questo vi risparmio pipponi su De André, Guccini, Battiato. Non intendo soprattutto criticare chi ascolta Sfera Ebbasta o Rovazzi: siamo il paese occidentale con minore mobilità sociale, è naturale tifare per i pochissimi che ce la fanno e che vengono dal nostro ambiente. Infine, sono cresciuto nei ‘90, e preferisco parlare di ciò che conosco, di un’epoca in cui, tutto sommato, ancora si faceva politica con la musica. Un’epoca di passaggio, di fine delle certezze, che descriveva giovani insicuri ma pronti a “volare senza vento“, che ancora conoscevano l’idea di conflitto (“Quante volte devo essere umiliato/Per capire l’importanza dei conflitti/La mentalità da vinti”), che riflettevano con Giuliano Palma e ascoltavano i propri simili, criticavano consumismo e conformismo con Frankie Hi-Nrg e i Subsonica. I gruppi più allineati, come i 99 Posse, non avevano paura di schierarsi apertamente con l’antifascismo, i centri sociali, e denunciavano le troppi morti sul lavoro o il conflitto tra poveri che sarebbe esploso anni dopo contro i migranti. Sebbene alcuni loro messaggi fossero troppo netti e, con occhi più informati, ingenui, il loro contributo culturale, se non altro come domande sensate, era indubbio, e tuttora valido. Queste strofe di Curre Curre Guagliò sono ancora attuali per descrivere la situazione dei pochi millennials che ce la fanno:

“Si può vivere una vita intera come sbirri di frontiera

In un paese neutrale, anni persi ad aspettare

Qualcosa qualcuno la sorte o perché no la morte

Ma la tranquillità tanta cura per trovarla

Sì la stabilità un onesto stare a galla

È di una fragilità guagliò”.

Come dire, avrò pure il lavoro ma posso perderlo facilmente, e ho sacrificato i sogni giovanili per uno stipendio a mala pena sufficiente e l’insoddisfazione permanente. Era una musica costruita nei live nei centri sociali, che puntava a una nicchia, con cui era in contatto costantemente, e che era riuscita a diventare abbastanza originale, moderna e catchy da diffondersi e conquistare spazi sui media (su MTV, prima che abdicasse a fare musica, persino a San Remo). La relazione con le nicchie era osmotica: la musica identificava le persone, era un biglietto da visita prima di iniziare una relazione amorosa, cementava le amicizie. Era inoltre un rifugio per chi si sentiva emarginato e sfigato: il metal, per esempio, radunava introversi e timidi, offrendo loro delle chances di rivincita, tipo suonare al concerto di fine anno scolastico – o pogare come disperati per sfogare un po’ di frustrazione.

L’enorme presa che hanno le attuali star della trap mi pare andare in un verso opposto: i loro testi sono continue autocelebrazioni, non hanno ironia, non hanno vie di mezzo – o sei come loro, fighi perché si comprano il rolex e la Lamborghini, oppure sei uno sfigato. Cantano così sfacciatamente male, testi poco curati, ripetitivi, flow inesistenti (sulla trap e la sua ritmica lenta e ipnotica può rappare chiunque), che rispecchiano simmetricamente i nuovi ricchi “cafonal”, che vantano la propria inconsistenza e rinfacciano il numero di follower e i soldi guadagnati (“Parla meno, pensa a farne molti, molti/Quattro in mate ma ora faccio i conti, conti/Apro conti, fra’, divento un conte, conte” canta Sfera). Finché il Corriere della Sera dà spazio a gente come Gianluca Vacchi, è difficile capire di chi sia la colpa di questo sfacelo. Perché anche le elite cercano di sopravvivere, assecondando il gossip e l’invidia di classe che diventa invidia degli status symbol, hanno paura di sembrare retrograde nel provare a criticare questi fenomeni. Chi ha ancora abbastanza competenze tende a chiudersi e a costruire prodotti culturali autoreferenziali, inutilmente complessi, in cui sentirsi migliori nella propria comfort zone; come la politica si polarizza tra partiti tecnici, e movimenti di protesta, così la musica produce gruppi noiosi di aspiranti intellettuali e cantanti trap (non critico Fedez perché ci ha già pensato Fabri Fibra).

E’ possibile però che ci sia un ulteriore fenomeno da tenere in considerazione: la riflessione politica attuale è a un livello di complessità tale da non poter diventare oggetto di canzoni pop. La depoliticizzazione della musica deriva anche dal fatto che la politica di qualità non è discussa per strada, non si vede sui telegiornali, è chiusa nelle stanze delle istituzioni internazionali, nei whitepaper, su riviste a tiratura limitata, su libri che nemmeno vengono tradotti in italiano. La domanda di discorso politico è in caduta libera, anche perché oggi si ha una fortissima percezione della sua inutilità: la crisi economica permane, l’immigrazione non tende a diminuire, moltissime persone rimaste indietro si sentono abbandonate. Il benessere ci ha reso individualisti, viene più facile sperare di diventare come quello che ce l’ha fatta, soprattutto perché non ha – apparentemente – grandi doti. Ultima constatazione: per essere eletti non serve nemmeno creare consenso attraverso un discorso politico. L’attuale meccanismo di selezione della classe dirigente, fondato su voti on-line, non misura competenze, non richiede sacrifici e impegno, è una scialuppa di salvataggio agognata da milioni di disperati che non hanno imparato a nuotare.

Oggi posti una cover su Youtube, domani una presentazione per vincere le parlamentarie. Aver invitato Sfera Ebbasta ha spiegato in maniera inequivocabile, a chi ancora credeva nella sinistra “impegnata”, che pure tra i giovani si è ormai minoranza; che la lotta è una perdita di tempo, un handicap.

Ditemi che sono antiquato, che sono borghese, che sono elitario. Io vi rispondo con questo.

ANDREA DANIELLI

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