MillennialsMa quale austerità? È solo buon senso!

Nei giorni in cui è arrivata in Parlamento la manovra finanziaria che si finanzia per quasi 22 miliardi in deficit, il ritornello dei filo-governativi rimane sempre lo stesso: basta con l'austerità...

Nei giorni in cui è arrivata in Parlamento la manovra finanziaria che si finanzia per quasi 22 miliardi in deficit, il ritornello dei filo-governativi rimane sempre lo stesso: basta con l’austerità, iniettate denaro nell’economia!

Lo sfondo teorico è la cara vecchia economia keynesiana, di cui non discuterò qui l’efficacia macroeconomica, sarebbe molto lungo, ma la premessa. Nei media e nell’opinione pubblica, e di riflesso nei social network, la lenta ripresa è dovuta all’austerità che ci ha imposto l’Unione Europea. Se avessimo potuto fare più deficit ci saremmo ripresi più rapidamente. Un primo argomento che si è soliti opporre alla vulgata è l’eccesso di debito pubblico italiano, al 132% del PIL, che scoraggia[va] dall’aumentarne l’importo, e quindi preclude[va] il ricorso al deficit.

In questo articolo vorrei invece portare un argomento diverso, o, più precisamente, una contronarrazione: perché il peccato capitale è il modo in cui descriviamo i nostri problemi. Sono convinto che la narrazione dell’austerità sia una impostura che ci porterà al disastro, e proverò pertanto a smontarla. Cominciamo con un paragone per essere chiari e didattici. Prendiamo la storia di Aldo: negli anni 80 ha 30 anni, un’ottima carriera nell’editoria e un degno stipendio. Vuole comprarsi casa e accende un bel mutuo da 80 milioni di lire trentennale. I primi 10 anni va tutto bene: lavora, è ben pagato, non fatica a rimborsare il mutuo. Nella seconda decade è un pimpante quarantenne, magari fa meno straordinari, però la progressione di stipendio è buona e paga le rate senza fatica – beh ha da rimborsare anche l’automobile, ma senza affanni. Terza decade: la sua azienda vende meno, per la crisi dell’editoria, e ha spese troppo alte; dopo pochi anni è costretta a chiudere, e Aldo trova solo lavoretti occasionali. I primi anni paga le rate rimanenti coi risparmi. Poi è costretto a fare un nuovo finanziamento per avere i soldi per il vecchio. Gli interessi si fanno importanti, il suo merito creditizio è peggiorato. Alla fine si ritrova a dover vendere la casa e ne prende una più piccola. Ora, domanda: comprare una casa più piccola è una scelta di austerità decisa dal cattivo direttore di banca, oppure una semplice reazione di buon senso a fronte di un minore reddito?

L’Italia per molti versi è simile al nostro Aldo: negli anni ‘70 era una giovane potenza economica, negli ‘80 ancora competitiva, poi dai ‘90 ha iniziato a perdere colpi, invecchiare; ha subito dal 2001 la concorrenza di un paese più giovane e affamato, la Cina, e ha perso quote di produzione nel mercato mondiale. Nel mentre era indebitata e la sua condizione è peggiorata, perché gli interessi da pagare sono cresciuti molto. Per quanto l’economia sia ben più complessa di quanto sto scrivendo, per capire lo stato di salute di una nazione occorre andare a vedere alcuni fondamentali tutto sommato intuitivi: la sua crescita demografica, il PIL procapite, l’occupazione. Perché? Più giovani ci sono, maggiore sarà la forza lavoro; la crescita del PIL procapite dimostra la capacità di produrre ricchezza nei fondamentali (si legga “produttività”), l’occupazione ci serve per capire quanti lavoratori servono per sostenere il welfare, che comprende anche non lavoratori. Nei decenni 60 e 70 la popolazione crebbe del 7% annuo, per effetto di una buona natalità e di un miglioramento della speranza di vita; oggi la crescita è sostenuta unicamente dall’arrivo di immigrati. Il saldo naturale, la differenza tra nati e morti, è infatti negativo da qualche anno.

Questo grafico mostra la crescita del PIL procapite: era visibilmente più inclinato negli anni 60-80:

Anche il rapporto debito/PIL, purtroppo, segue una crescita simile:

Infine, vediamo pure il tasso di disoccupazione:

Proviamo a tirare le somme. Le pensioni generose e il sistema sanitario universale erano state pensate quando i giovani erano il doppio degli anziani e l’economia cresceva impetuosamente, permettendo di conseguenza un costante aumento della raccolta fiscale – ossia dei soldi disponibili per il welfare. Non è che fossero corrette prima, e oggi degli insostenibili privilegi. Il welfare è un’ottima invenzione che ci tutela dalla malasorte, ci aiuta a vivere più serenamente. Certo, si potrebbe rendere più efficiente, ma la sua sostenibilità dipende essenzialmente da come sta l’economia di un paese: la nostra economia è peggiorata in tutti i fondamentali, non può sostenere gli standard assistenziali pensati in anni migliori. Parlare di austerità è sviante: pare che ci sia la volontà di far stare peggio qualcuno, di sottrarre denaro all’economia, con il rischio di aggravare le sue condizioni. Invece è la reazione di un buon padre di famiglia che, in un momento difficile (la crisi del 2011), prova a risparmiare, per non dover cercare uno strozzino a cui regalare i gioielli di famiglia. Di certo i figli non possono essere felici delle proprie rinunce, e non tutte sono state scelte nel migliore dei modi. I politici che hanno dovuto tagliare le spese sono stati sfortunati: l’Italia era indebitata e con un welfare sbilanciato da molti anni, la crisi ha fatto solo arrivare prima i nodi al pettine. Uno storytelling più corretto, capace di parlare di sostenibilità delle finanze pubbliche e non di austerità, avrebbe probabilmente evitato l’esplosione degli attuali partiti di governo, molto bravi a capitalizzare il rancore diffuso.

ANDREA DANIELLI

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