Il Social Credit System cinese rende reali le suggestioni distopiche della serie. Follie del grande Impero di Mezzo? Non pensate di esserne totalmente esclusi…
Non paghi il biglietto sull’autobus? Ahi. Posti online contenuti che criticano il governo? Doppio ahi. Questo mese hai speso più di quanto hai guadagnato? E magari comprando alcolici online? Come?! Da padre di famiglia?! Eh beh, allora te la vai proprio a cercare. Se il mese prossimo vorrai poter comprare un biglietto del treno veloce, dovrai almeno andare a donare il sangue, elargire un po’ di beneficenza e fare un giro a quell’ospizio per vecchietti a fare volontariato.
No, non è “Nosedive”, il famoso episodio della serie Black Mirror in cui la protagonista viveva in un mondo di rating continuo da “tutti contro tutti” ed entrava in una spirale negativa di feedback con consueto finale angosciante.
È invece “Sesame”, il sistema di credito sociale che esiste già nel mondo reale, e più precisamente in Cina, che lo sta già attivamente implementando. Entro il 2020, coprirà il 100% della popolazione del gigante asiatico, ovvero 1 miliardo e 400 milioni di persone. Circa un quinto degli esseri umani del pianeta Terra sarà quindi giudicato con un “voto” unico e insindacabile.
Vi fa paura? Allora sentite com’è iniziato il tutto…
Per prime vennero le aziende: chi non sarebbe d’accordo nel dare una “pagella” alle aziende che sono cattive pagatrici, o a quelle che assumono in nero i loro dipendenti, a chi non riesce a ridare indietro un prestito? Nessuno, certo. Ed è lì che la prima breccia si è aperta.
La seconda, invece, è stata più di sponda: i pagamenti. In Cina, almeno nelle aree metropolitane, nessuno usa più i contanti: la stragrande maggioranza dei pagamenti viene fatta tramite smartphone, inquadrando con QR code. Gli applicativi di “portafoglio virtuale” più utilizzati sono WeChat e Alipay, del gruppo Alibaba. Tutto tracciato, dalla ricevuta al ristorante alla corsa in taxi, che si prenota ovviamente tramite una applicazione, “Didi”, l’equivalente in salsa cinese di Uber.
Fantastico, direte: niente più nero, evasione fiscale ridotta al minimo. Certo. Ma anche, vista con gli occhi del governo cinese: zero commissioni pagate ai grandi gruppi americani (Visa e Mastercard da tempo non sono le benvenute a Pechino e Shanghai: le carte di credito qui sono tutte UnionPay), e soprattutto un’immensa banca dati di transazioni a disposizione. Et voilà: l’infrastruttura era pronta per la rivoluzione.
Laddove non arrivano le telecamere, arriva la rete
Questa sterminata mole di informazioni, o meglio, per chiamarla alla Silicon Valley, “Big Data”, permette di sostituire gran parte del lavoro redatto storicamente a mano dai burocrati cinesi, e di avere sotto controllo il comportamento della popolazione in maniera iper-capillare. Alla rete di telecamere che mappa ormai tutta l’area urbana del Paese, si sovrappone ora il flusso digitale di informazioni in cui ingabbiare ogni singolo individuo, a un costo pro capite risibile.
Il Sistema prende i suoi input da tre fonti principali: quelle tradizionali (pagamento delle tasse, prestiti, bollette, carte di credito), quelle sociali (fedina penale, volontariato, fino all’attraversamento fuori dalle strisce pedonali) e quelle online (interazioni con altri utenti web, abitudini di shopping etc). Da questi tre input esce fuori un voto, il “Social Score”, appunto. Sopra ai 1.000, siamo nella norma, e anzi, in alcuni casi i cittadini più virtuosi otterranno sconti al supermercato, tasse ridotte e prestiti agevolati. Sotto, però, iniziano i guai: niente possibilità di acquistare biglietti del treno o voli interni, linee di credito bloccate. Ci sono già stati diversi casi in cui giornalisti dissidenti non hanno potuto più spostarsi nel Paese o accendere mutui se non con estrema difficoltà.
Una manovra del popolo, per il popolo
La verità però è che la gente comune è a favore di questo tipo di provvedimento. Siamo noi a definirlo distopico, perché usiamo come sempre un metro di misura occidentale. Ma nella storia evolutiva di questo Paese, per l’uomo comune rinunciare a questo tipo di privacy è assolutamente tollerabile, specie in una cultura pervasa dal buddhismo, che già cita “l’acquisizione di meriti” come uno degli obiettivi principali del buon monaco. I cinesi avvertono di essere tanti, e dunque sanno che per essere governati hanno bisogno di regole chiare, e poche opzioni. Inoltre, la stragrande maggioranza di loro ha vissuto in questi ultimi decenni un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita, in tutte le sfere. In cambio, hanno già accettato di buon grado la politica del figlio unico, il fatto di non avere un Partito di opposizione a quello Comunista, lo spostamento di intere città da centinaia di migliaia di abitanti per la costruzione della Diga delle Tre Gole, uno dei più grandi disastri ecologici del mondo odierno: non sarà certo l’estensione della pagella dalla scuola al resto della vita a preoccuparli. L’unica cosa che li preoccupa, ora, è di donare più del proprio vicino in beneficenza, non certo per filantropia, ma per “salvare la propria faccia”, che è il primo vero criterio dell’animale sociale cinese.
“Non sorridete, gli spari sopra…”
E, ad ogni modo, per quanto meno sistematizzato, qualcosa di simile sta accadendo da tempo anche in Occidente. Il sistema di rating si è radicato in profondità nella nostra società: siamo valutati quando vendiamo qualcosa su Ebay, quando offriamo un servizio di ristorazione, perfino quando prendiamo un taxi (il voto su Uber è bidirezionale, non solo verso il guidatore). Siamo ovviamente valutati da decenni dalle banche, e annualmente nelle grandi corporazioni (la Performance e Leadership di marchionniana memoria, per citarne una). Abbiamo perfino una patente a punti, e per recuperarli dobbiamo tornare a scuola guida, ovvero spendere dei soldi per ridimostrare di sapere cose che abbiamo già dimostrato di sapere, e al massimo di non applicare.
Quello che manca è una sovrastruttura che unisca i puntini, e che esprima un voto complessivo unendo tutti i parziali di quei singoli sistemi informativi. Non stupirebbe se uscisse un’app che lo facesse, a breve. Anzi, tecnicamente, era già uscita, nel 2015, “Peeple”, che si definiva una “positivity app” in cui chiunque, dal capo all’ex fidanzato, poteva dare un giudizio su chiunque. L’app è poi sparita piuttosto repentinamente dalla pubblica piazza dopo l’ondata di sgomento che aveva generato tra gli utenti occidentali. Ecco: questo sembra uno di quegli ambiti in cui l’idea di un rating “dal basso”, peer-to-peer, non suona molto brillante.
Forse neanche dall’alto, direte voi. Ma immagino che “voi” siate gli stessi che nel 2005 prima di dare il vostro indirizzo email a qualcuno vi assicuravate di avere le sue generalità, mentre qualche anno dopo siete lì a postare ogni dettaglio della vostra vita a intervalli regolari sui social media, regalando il vostro profilo virtuale (che talvolta è ancora più dettagliato di quello reale) agli sviluppatori delle app per poter giocare a Angry Birds o una versione arcade di Tetris.
Quando la tecnologia è pronta, quello che serve per radicare un nuovo strumento in profondità nella mente e nella quotidianità dell’homo tecnologicus è solo la massa critica. E qualcuno che abbia il coraggio, la pazzia o, più banalmente, l’interesse, di buttarsi per primo.
E se chi accettasse di essere pioniere, partecipando al progetto, ottenesse in cambio premi da far concorrenza alle scheda fedeltà del supermercato? O magari, che ne so, qualche euro in più accreditato sulla carta del reddito di cittadinanza?
Chi può dire dove si sposterà la barriera del “tollerabile”, se la gamification funzionerà a dovere?
Prima di spostare il confine del concetto di “distopia”, aspettiamo con ansia di abbeverarci alla fonte dell’oracolo di Netflix.
FILIPPO LUBRANO