Con la Libia trionfa la destra identitaria

Con la Libia trionfa la destra identitaria

Non è democrazia, ma una selvaggia esplosione di nazionalismi quella che scuote il Nord Africa e il Medio Oriente. I regimi che stanno cadendo oggi sono nati nell’epoca post-coloniale del Novecento, e sono stati cristallizzati per decenni sotto dittatori, governi famigliari e piccoli despoti con le proprie corti diffuse. Saltato il tappo della Guerra Fredda, venuto meno l’interesse all’allineamento (o all’opposizione) rispetto agli Stati Uniti, e assaporati i primi scampoli di benessere, etnie e tribù hanno adesso l’opportunità storica di esprimere la propria identità.

Il paese precursore di questa tendenza è stato la Turchia. Lo stato moderno, creato da Mustafa Kemal Atatürk, si è basato su una democrazia marcata strettamente dai militari; nei primi anni Novanta i generali hanno perso progressivamente potere e si è stabilito al governo un gruppo politico di orientamento islamico fortemente identitario, anche se non teocratico. La Turchia rappresenta probabilmente il miglior modello di democrazia che potrebbe essere introdotto nell’area: pregno di suggestioni religioso-identitarie, conserva ancora molte separazioni tra i settore politico e classe clericale.

Questa divisione, fra clero e politica, viene spazzata via in Iran fin dalla Rivoluzione Islamica. Qui è stato scelto un modello teocratico che, all’epoca della cacciata dello Scià nel 1979, rappresentava bene la reazione al governo del despota filo-occidentale. La crisi sociale esplosa nel 2010 con la “Rivoluzione Verde” evidenzia come questo modello di “sinistra islamica” sia entrato in crisi. Come “sinistra religiosa” impone l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte al divino, e introduce un piano di sostegno sociale di ampio raggio, incluso, fino al 2011, il programma per calmierare i prezzi della benzina. La nuova destra iraniana ha voluto interrompere gli incentivi e dare più voce a gruppi organizzati come le Guardie Rivoluzionarie o le forze paramilitari dei Basiji.

Questo tipo di sinistra si è dimostrato incapace di rispondere alle esigenze popolari anche in Palestina: nelle elezioni del 2006, la “sinistra” del Fatah ha perso la Striscia di Gaza in favore della “destra islamica” di Hamas. Anche in Egitto e Libia l’ordine politico era almeno formalmente di sinistra: il “Partito Democratico Nazionale” di Hosni Mubarak è stato a lungo membro dell’internazionale socialista, mentre nella Libia di Gheddafi erano presenti “consigli rivoluzionari di base” che replicavano in Nord Africa la formula dei Soviet.

Siamo di fronte a nuove pretese dei modelli politici di destra sociale di stampo identitario. In Libia la tragica guerra civile ripete previsioni viste in più e più testi di politica: una zona ricca di petrolio (la Cirenaica) non ha ricevuto per decenni rimesse finanziarie dalle rendite estrattive (Gheddafi), e alla fine ha sviluppato un’identità locale in risposta al dominio del gruppo di potere centrale. La Cirenaica adesso sta diventando un santuario per i programmi sociali della “Fratellanza Musulmana”: quando si arriverà alla separazione dal resto della Libia, si creerà una fascia identitaria religiosa che includerà questa regione e il nuovo Egitto.

Il dibattito sui nazionalismi è esploso con violenza nel 1989 in Europa dopo la caduta del Muro: i Paesi dell’Est hanno cercato in poco tempo di ristabilire una propria identità culturale dopo anni di dominio sovietico. In alcuni casi la reazione alla regola socialista è stata violentissima, come nei Balcani. Alla fine, si sono realizzati dappertutto modelli più o meno sviluppati di democrazia, con l’eccezione evidente della Bielorussia di Aleksandr Lukašenko. In generale, possiamo osservare che la caduta dei modelli di sinistra ha lasciato spazio a strutture liberal-democratiche.

In Medio Oriente non sarà così. Le reazione ai regimi avrà anche qui radici identitarie, ma manca un “modello alternativo” come poteva essere l’America del dopoguerra. La percezione che si ha della democrazia occidentale è quella data dalle immagini dei conflitti mediorientali, di Abu Ghraib, del sostegno dato troppo a lungo a dittatori discutibili. È difficile che Washington riesca a recuperare la situazione in poche settimane, ed è velleitario pensare di introdurre un Piano Marshall per il Medio Oriente (contro chi? Contro noi stessi?).

Il problema sarà per la sicurezza: le nuove destre non si accontenteranno dei propri territori, ma potranno avere pretese egemoniche. La Fratellanza Mussulmana è tale perché sotto lo slogan “l’Islam è la soluzione” vuole riordinare la società sotto la regola islamica. Olivier Roy nel suo Failure of Political Islam sosteneva nel 1992 che i partiti islamici si sarebbero integrati nelle strutture democratiche, o avrebbero preso una piega neofondamentalista. La realtà di questi giorni dimostra che, evidentemente, esisteva una terza strada: la rivoluzione. In Egitto questo cambiamento è ancora ostaggio dei generali, che hanno sospeso la costituzione e detengono il potere. Quando verranno indette le prime elezioni, potranno mai i militari del Cairo accettare una vittoria delle fazioni islamiche?
 

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org

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