Forse qualcuno sta esagerando. Nella visione anglosassone lo stereotipo è sdoganato. Per mille ragioni, il luogo comune ha la sua dignità. E riguarda spesso l’Italia. Ma la cultura indiana è un’altra cosa. O almeno dovrebbe.
Invece leggete sul giornale indiano The Hindu, il pezzo di Vaiju Naravane intitolato «Corruzione: l’Italia è un passo avanti?». In un passaggio il secondo quotidiano in lingua inglese del Paese scrive che gli «italiani sono amichevoli, verbosi, gradevoli ed è l’unico posto in Europa dove i vegetariani possano avere un pasto decente. Ma sono anche ladri e doppi. Dagli una mezza possibilità e ti toglieranno la camicia di dosso e le scarpe dai piedi, un po’ come accade con i borsaioli di Mumbai». Ma non finisce qui. «Molti indiani dicono che in Italia si sentono a casa: la vita è caotica, nessuno obbedisce alle regole, la polizia può essere pagata per farsi cancellare le multe, c’è una massiccia evasione fiscale, la mafia controlla grandi porzioni del territorio, il governo non conta niente e per i ricchi la vita è davvero bella».
E i poveri, vogliamo tralasciare i poveri? «Quasi nessuno, a parte alcune organizzazioni cattoliche e altre Ong, pensa ai meno abbienti. Il denaro pubblico per le vittime dei disastri tende a sparire nelle tasche dei funzionari e il favoritismo è rampante: nel Mezzogiorno così esposto ai terremoti, le case costruite per i poveri sono le prime a crollare a causa della povertà dei materiali». Il punto che il pezzo vuole sostenere è che tutti questi fattori rendono molto simili i due Paesi. Per farlo si lancia anche in un lungo excursus storico, che parte dai Greci ed arriva a Mani pulite e la Seconda Repubblica, passando per Garibaldi. Il tutto per spiegare anche come sia possibile che noi italiani, nonostante siamo così malmessi, siamo la settima potenza economica al mondo. Le similitudini sono parecchie, sottolinea continuamente l’Hindu. A parte però il Bunga Bunga: «Un comportamento simile non sarebbe possibile in India a causa della nozione prevalente di pubblica (o per quello che conta) privata moralità. Ma [in India], come in Italia, quasi nessun politico beccato per corruzione, o in flagranza di abuso d’ufficio o semplicemente a rubare è mai finito in galera».
Se vi mancano pizza, spaghetti e mandolino, andate a leggervi il resto del pezzo. Nessuno vuole difendere l’indifendibile di un Paese dove la Corte dei Conti lancia allarmi continui sulla corruzione, dove le statistiche di Transparency international sono un pugno nello stomaco e dove le tre mafie fatturano più di Eni. Ma diamoci una calmata. Una recente analisi di due professori indiani, Jayant Sinha e Ashutosh Varshney, pubblicata dal Financial Times, spiegava come gli scandali di corruzione in India siano arrivati ad un punto tale da rendere il subcontinente molto simile alla Gilded age americana, la fase di passaggio da un’economia agraria ad una industriale (1865-1900) contraddistinta da corruzione devastante, soprusi, omicidi e far west a cui si iniziò a porre fine con la presidenza di Theodore Roosevelt.
Tutti i Bunga Bunga del mondo non ci fanno certo fare bella figura, ma l’Italia di oggi non è il far west di allora, né il far east di oggi. Qualche passo avanti lo abbiamo fatto anche noi, per quanto spesso ci facciamo cogliere, più o meno giustamente, in fallo. Quando gli inglesi hanno dato l’indipendenza agli indiani nel 1947, se ne sono andati lasciando tante buone cose, dalla ferrovia alla pubblica amministrazione, oltre ad una lingua che è l’unica davvero nazionale in un Paese così diviso come l’India. Peccato si siano dimenticati di riportarsi a casa, assieme all’argenteria, anche l’utilizzo smodato degli stereotipi.