La formazione del Mercosur– l’accordo commerciale tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – rappresentò l’inizio di uno dei tentativi più ambiziosi di coniugare apertura economica e integrazione regionale nei paesi in via di sviluppo. Vent’anni dopo la firma del Trattato di Asunción, il 25 marzo 1991, molti degli obiettivi iniziali sono stati raggiunti, la regione gode di una salute tutto sommato eccellente e in ogni caso invidiabile rispetto alla nubi che invece pesano sull’economia mondiale, eppure il Mercosur sembra aver smarrito per strada la vitalità originaria.
Il Mercosur ha simbolizzato nella sua fase iniziale le virtù del regionalismo aperto, fatto di riforme unilaterali – liberalizzazione economica, privatizzazione d’imprese pubbliche e apertura agli investimenti esteri – combinate a aggiustamenti macroeconomici – la sconfitta dell’iperinflazione resa possibile dal currency board argentino e dal Plan Real brasiliano. Un successo significativo, ottenuto in parallelo con il consolidamento di giovani democrazie, che addirittura nel caso paraguaiano nacque solo nel 1993. L’adozione di una tariffa esterna comune suggellò nel 1995 questa fase fortemente propositiva del Mercosur.
Il successivo passaggio dall’unione doganale al mercato comune non è però stato possibile se non in forma embrionale. Tra la fine degli anni 90 e il 2002 la regione visse una fase di instabilità profonda, in cui ogni crisi finanziaria internazionale, come l’Asia nel 1997 e la Russia più tardi, mise a nudo che gli equilibri macroeconomici poggiavano su basi fragili. Ciascuna situazione delicata provocò profonde incomprensioni tra i partner, e soprattutto tra Argentina e Brasile, che arrivarono a svalutare le proprie valute senza informare l’altro paese. Tutto ciò ha lasciato in eredità una crescente disaffezione verso gli obiettivi del Mercosur stesso.
Non sorprende allora che quando, grosso modo nel 2004, la situazione economica iniziò a migliorare, l’impegno a consolidare il blocco regionale non fu neanche lontanamente paragonabile a quello dimostrato al principio degli anni ’90. Pur con un’interruzione, peraltro breve, in occasione della crisi mondiale del 2008, la felice stagione che vivono tuttora le quattro economie è dovuta innanzitutto alla domanda cinese per gli svariati prodotti primari che, dai cereali alla soia, dal ferro alla carne, il Mercosur produce in abbondanza. Difficilmente una congiuntura di questo genere, in cui il boom è tanto concentrato nelle commodities a modesto valore aggiunto, conduce a strategie d’integrazione. Al contrario, il timore della deindustrializzazione ha spinto i politici ad adottare misure di protezione che, pur essendo indirizzate in primis contro la Cina, hanno spesso finito per ledere gli interessi delle industrie dei paesi partner.
In questo ritorno a politiche improntate al nazionalismo economico si è distinta l’Argentina, provocando spesso la furia degli industriali brasiliani ma anche del governo di Brasilia che pure in teoria dovrebbe condividere la stessa ideologia della famiglia Kirchner. Lula infatti non ha dimostrato grande interesse nella relazione con l’Argentina, preferendo proiettare il Brasile nell’olimpo delle grandi potenze globali e riservando tutt’al più le sue attenzioni in America del Sud ad altri paesi, sulla base degli interessi nazionali piuttosto che delle simpatie ideologiche. Il Brasile rappresentava il 66% del Pil del Mercosur nel 1991, questa percentuale è ormai dell’82 (vedi grafico). E non a caso la diplomazia, politica ed economica, brasiliana ha scelto di concordare molte delle proprie posizioni sui grandi dossier, compresi quelli del G20 e del Fondo Monetario Internazionale, con Cina, India, Russia e Sud Africa, piuttosto che con l’Argentina.
La dimostrazione che il Mercosur ha smesso di essere centrale nella politica d’integrazione regionale dei due soci maggiori viene da quello che, quantomeno in teoria, dovrebbe essere il solo grande risultato del secondo decennio d’esistenza del gruppo, e cioè l’allargamento al Venezuela. Questo è stato fortemente voluto da Nestor Kirchner per cercare di controbilanciare il predominio crescente del Brasile con un socio, Hugo Chávez, che è stato a lungo l’unico investitore estero disposto ad acquistare titoli di Stato argentini. Il Brasile ha dimostrato un iniziale interesse per la possibilità di rinforzare la cooperazione con il quinto produttore mondiale di petrolio, che è rapidamente scemato a seguito della scoperta d’immensi giacimenti petroliferi in Brasile e della crescente insofferenza verso Chávez. In ogni caso, quasi cinque anni dopo che gli vennero aperte le porte, il Venezuela non può ancora partecipare come pieno membro al Mercosur, dato che il Parlamento del Paraguay rifiuta di ratificare l’accordo concluso nel 2006. Così come rimangono semplici membri associati altri due Paesi latinoamericani, Cile e Perù, che sono molto rapidamente cresciuti negli ultimi anni (tanto che il primo è ormai da un anno membro dell’Ocse).
Quale futuro attende allora il Mercosur? Molto dipende ovviamente dalle preferenze brasiliane. Dilma Rousseff ha scelto Buenos Aires per compiere la sua prima visita all’estero, firmando a fine gennaio 15 documenti congiunti per rafforzare la cooperazione bilaterale. Ma in compenso non ha confermato la sua presenza ad Asunción il 26 marzo, per festeggiare il ventesimo anniversario del Trattato, portando alla cancellazione delle celebrazioni. Nel frattempo il sistema politico argentino si prepara alle elezioni presidenziali del 23 ottobre con una delle sue periodiche convulsioni, in cui ben poco spazio è lasciato alla riflessione sulla strategia d’integrazione che meglio corrisponde all’interesse nazionale. Fortunatamente le economie dei paesi membri continuano a crescere a tassi elevati – 9,7% per il Paraguay nel 2010, 9% per l’Uruguay, 8,4% per l’Argentina e 7,7% per il Brasile – ma perdere l’opportunità di accelerare la costruzione del Mercosur rischia di essere uno spreco doloroso se un giorno anche nella Pampa e nel Cerrado le vacche smettessero di essere tanto grasse.