Esiste un legame profondo tra rivoluzioni, identità e media. L’introduzione del libro stampato ha consentito la diffusione della Bibbia in tedesco, da cui è nata l’identità dell’Europa protestante, fino ad arrivare alla Guerra dei Trent’anni. I giornali hanno consentito la nascita dell’identità borghese e sono stati alla base della Rivoluzione Francese, così come di tutti i movimenti moderni del secolo successivo. Le rivolte mediorientali di oggi fanno parte di una serie di sommosse che si sono sviluppate a partire dai primi anni duemila, in cui internet è al centro della creazione e della rivendicazione delle identità nazionali.
Così come il libro ha sviluppato un’idea pre-nazionalista mitteleuropea; così come il giornale ha portato al primo nazionalismo “moderno”, quello francese; così come i media popolari (radio e cartellonistica) sono stati alla base dei movimenti conservatori nell’Europa degli anni Trenta, oggi internet sta esprimendo per la prima volta la sua portata nella creazione dell’identità e nello svilupparsi di una rivoluzione borghese in Medio Oriente. È vero che il web ha ancora una penetrazione estremamente bassa in tutta l’area, dal Marocco al Golfo Persico; ma nella nascita dell’identità e delle rivoluzioni che seguono, storicamente i media hanno coinvolto solo un élite della popolazione. Relativamente poche erano le copie della Bibbia in tedesco di Lutero che circolavano per il Nord-Europa; pochi erano quelli che potevano scrivere sui giornali alla fine del diciottesimo secolo, e non tutti sapevano leggerli; gli investimenti necessari per il funzionamento della radio e della pubblicità li hanno resi strumenti appannaggio di pochi negli anni Trenta del Novecento. I media però sono serviti per riconoscere, coalizzare e sostenere un consenso verso idee particolari, orchestrati da pochi.
È il caso delle rivolte attuali e di internet. I gruppi organizzati alla base delle rivolte al Cairo hanno appreso gli strumenti di lotta dal movimento serbo Otpor, evolutosi in una sorta di centro di “consulenza per rivolte” denominato “Canvas”, che nel 2009 a Belgrado ha somministrato sei incontri-seminario sulle rivolte pacifiche a giovani egiziani. Strettamente coordinati tramite social network sono stati anche la “Rivoluzione Verde” in Iran e le sommosse che hanno portato all’uscita delle truppe siriane dal Libano nel 2005. Nel parlare di “Rivolte nazionaliste” mediorientali non intendiamo però che esse siano da identificare con il fascismo o con i nazionalismi di estrema destra. Siamo ancora in una prima fase dello sviluppo dell’ideologia: quello della presa di coscienza. È adesso che si diffondono tutti i valori positivi, di riconoscimento e di progresso, che dovrebbero portare alla nascita di società nuove. Il desiderio di cambiamento delle strutture politiche è sostenuto dalla necessità che esse rispecchino l’identità popolare. Rimuovendo i rappresentanti dell’ancien regime ci sarà spazio per la nuova rappresentatività.
Al contrario della rivoluzione del “libro” o quella del “giornale” non esiste qui un’ideologia dominante in grado di convogliare e coordinare il consenso, quanto messaggi e convincimenti fortemente locali – e in questo senso “nazionalisti“. In Iran l’identità politica si basa su una questione generazionale: si tratta di un elemento presente in larga misura anche in Egitto, Libia, Algeria e Tunisia, dove però intervengono anche questioni dirette di rappresentatività. In Yemen, Arabia Saudita e Bahrein, dove l’effetto delle nuove tecnologie di comunicazione sembra essere minore, la contesa identitaria si basa su questioni più prettamente etniche. L’elemento religioso finirà però per condizionare l’evolversi di tutti gli eventi. Una volta esaurito l’effetto “positivo” del cambiamento, spesso le rivoluzioni lasciano spazio a periodi di violenta riorganizzazione degli assetti e del potere. La speranza è che non sarà così in Medio Oriente: sarebbe meraviglioso se la democrazia e la libertà popolare trionfassero al posto di dittature e governi bloccati in tutta l’area, posto che questo sia il desiderio dei cittadini. L’osservazione di alcune situazioni spinge però a essere necessariamente più pessimista.
La questione principale riguarda il ruolo che rivestiranno le due principali potenze economiche del quadrante: la Turchia e l’Iran. Entrambi i Paesi infatti percepiscono di essere in qualche modo i precursori e i modelli di quello che sta succedendo in Medio Oriente, e cercheranno nei prossimi anni di acquisire un peso sempre maggiore, con il rischio di arrivare allo scontro.
Questo finora non è successo perché Ankara e Teheran hanno operato su sfere di competenza diverse: mentre la Turchia cercava un ruolo di guida economica della regione, l’Iran continuava a perseguire i propri obbiettivi di guida del mondo sciita in funzione anti-israeliana, con il fine ultimo di ostacolare l’ingerenza degli Stati Uniti.
Le rivolte arabe porteranno a una diminuzione netta dell’influenza occidentale, in favore di identità locali che si allineeranno tra la sfera d’influenza turca e iraniana. È qui che gli interessi delle due potenze potrebbero entrare in contrasto. È per questo che la Turchia ha interesse affinché in Egitto si installi una forma democratica con forti influenze religiose, mantenendo una distinzione tra parlamento e moschea; è per questo che l’Iran è interessato a sostenere ancora la rinascita sciita in Libano, Yemen e Bahrein, in cui si realizzi il trentennale sogno egemonico, su scala più piccola, della rivoluzione iraniana.
La Turchia ha già iniziato a proporsi come modello economico per i paesi confinanti. Rinvigorita dai robusti tassi di crescita interni, vede nella vicinante Siria «la Turchia com’era trent’anni fa», ricca di opportunità ancora da esprimere – e presto verrà aperto un nuovo varco di frontiera automatizzato. È anche per le opportunità offerte dalla nuova economia che la Siria sembra essere stata finora meno coinvolta dalle tensioni sociali. Ma forse è proprio qui che gli interessi inizieranno a collidere: la Siria è una direttiva per lo sviluppo turco, ma rimane la proxy iraniana per l’influenza sul Libano meridionale, e con esso su Israele.
Mentre osserviamo questi enormi cambiamenti dall’altra parte del Bosforo, comprendiamo in tutta la sua enormità l’errore compiuto negli ultimi anni di rallentare l’ingresso turco in Europa. Adesso stiamo osservando la nascita di una potenza regionale che avrà come riferimento politico quasi esclusivamente se stessa e i paesi arabi, anziché un confronto costante e attivo con le economie occidentali. Può sembrare un gretto discorso d’interesse, ma si basa su ragioni di stabilità: adesso si stanno creando le premesse delle nuove identità arabe. Se la Turchia fosse stata già “Europa”, avremmo potuto dialogare direttamente e sullo stesso livello con le nuove realtà nazionali. Nella situazione attuale, una Turchia “esterna” all’Unione Europea potrà fare solo da interlocutrice – e in cambio potrà pretendere molto.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org