Arrivati a 10 mila morti e quasi 60 mila feriti, ancora non abbiamo capito quale è la strategia della coalizione anti-Gheddafi o quale la auspicabile mossa vincente. In tempi non sospetti abbiamo scritto che un intervento militare euro/americano era cosa sconsigliabile per una serie di ragioni che hanno poi trovato conferma nei due mesi di conflitto ancora in corso. Poi sono arrivate la risoluzione Onu 1973 e la smania interventista francese e la carica lancia in resta è diventata un dato di fatto.
Ad oggi, il meglio che si possa dire, è che la situazione militare sul campo è in stallo, mentre la conduzione dei raid aerei, «è diventata difficile», a detta del portavoce Nato Carmen Romero. Sia perché il timore di utilizzo di scudi umani da parte del Rais sembra confermato a Misurata, sia perché sta diventando sempre più critico distinguere tra lealisti ed insorti, come alcuni casi di “fuoco amico” dimostrano. Nonostante questo i ribelli accusano la Nato di non fare abbastanza, una critica alla quale il Segretario Generale Anders Fogh Rasmussen risponde chiedendo agli alleati, su sollecitazione dei soliti Francia e Gran Bretagna, più cacciabombardieri.
Contraddittoriamente, l’altra organizzazione internazionale coinvolta, l’Onu, attraverso il suo Segretario Generale Ban Ki-moon, lancia appelli per una soluzione “politica”, dopo una scelta che ha incrinato la coalizione occidentale. Probabile si tenti di cambiare i termini della risoluzione 1973, nella speranza di creare maggior armonia tra gli alleati e di consentire finalmente interventi che non siano solo rigorosamente a protezione della popolazione civile, ma anche, in certa misura, mirati alla distruzione di mezzi ed infrastrutture di Gheddafi.
Visto che il ministro degli Esteri russo Lavrov, a Berlino aveva dichiarato che la Nato «in molte occasioni» va oltre il mandato della risoluzione, l’unico escamotage è appunto cambiarla. In questo momento di febbrile dibattito nei corridoi della diplomazia, l’Italia tenta, giustamente, di star fuori perlomeno dalla fase di intensificazione della campagna aerea. L’ultima volta che abbiamo sganciato bombe sulla Libia abbiamo passato i successivi sessanta anni a chiedere scusa travasando in quel paese fiumi di denaro.
Sarebbe saggio evitare di passare anche i prossimi sessanta chiedendo nuovamente perdono. Tuttalpiù, dice Frattini, possiamo pensare ad inviare armi per l’autodifesa (radio, visori notturni, apparati di disturbo delle comunicazioni), un compromesso minimalista che perlomeno ha moderate possibilità di approvazione in Consiglio dei Ministri. Di armi vere (carri, artiglieria, lanciamissili, mortai), di quelle che servono davvero a ribaltare le sorti del conflitto, per il momento non se ne parla. Manderemo qualche istruttore militare, ma non di più.
Insomma, se la Libia è un paese spaccato in due, la coalizione occidentale è spaccata in molti più pezzi, complice anche la vicenda dell’immigrazione clandestina, che certo non aiuta l’armonia per esempio tra noi e Francia. C’è chi continua a vedere nella inutile no fly zone (la Libia non ha più una aviazione) e nella campagna aerea la soluzione dello scontro, chi pensa che essa sia nell’invio di armi pesanti ed individuali (gli Usa), chi confida in soluzioni “politiche” (l’Onu) e chi vuol starne del tutto fuori (la Germania).
Morale: l’Occidente non ha una strategia. Il che evidentemente non aiuta la rapida risoluzione della crisi. Quello che a noi appare invece chiaro, come già sottolineato in queste pagine, è che la campagna aerea non ha possibilità di essere risolutiva. Non diciamo nulla di nuovo, questa è la linea tradizionalmente tenuta dai grandi comandanti di fanteria, che invece sostengono che l’arma risolutiva è il fante sul terreno con la baionetta innestata. La verità è nel mezzo, le due armi sono complementari. Giulio Douhet negli anni venti teorizzò il bombardamento strategico come risolutore dei conflitti. Non si aspettava che le sue innovative teorie (formulate quando gli aerei a malapena stavano per aria) diventassero, elaborate da William Mitchell, l’architrave portante della strategia offensiva americana.
La Seconda Guerra Mondiale ha visto il culmine di questa dottrina, con i bombardamenti a tappeto e quello nucleare, mirati non solo a bersagli di rilevanza militare, ma diretti anche a minare il morale delle popolazioni civili. Douhet e gli americani, però non avevano immaginato che da allora la natura del conflitto sarebbe profondamente cambiata:sparite le armate di milioni di uomini, le trincee, il fronte ben delineato sarebbe apparsa la guerra asimmetrica, il terrorista infiltrato oltre linee di un fronte ideologico e non più topografico, sarebbero nati i miliziani un po’ civili ed un po’ soldati, sarebbe nata la Tv che mostra al mondo gli effetti devastanti del bombardamento strategico.
A questi nuovi fattori la tecnologia ha risposto creando la bombe intelligenti, il bombardamento chirurgico, il razzo lanciato da tremila chilometri che colpisce alla peggio a cinque metri da suo bersaglio. Ma non basta, l’illusione dell’iper tecnologico che affida alla precisione dell’ordigno l’annientamento totale del nemico, resta tale: il bombardamento aereo rimane strumento complementare ed indispensabile alla penetrazione della fanteria. Gli americani hanno sganciato sui nord-vietnamiti più di sette milioni di tonnellate di bombe (tre volte e mezza quelle sganciate durante tutta la Seconda Guerra Mondiale su Europa e Giappone), ovvero più o meno 500 chili per ogni uomo, donna e bambino nord-vietnamita. Chi ha vinto la Guerra del Vietnam? E questo nonostante ai bombardamenti fosse seguita l’azione delle fanterie.
Quali allora le chance di sconfiggere i lealisti di Gheddafi solo dall’alto? Pochissime. Esiste in teoria della strategia sostanzialmente solo il caso del bombardamento della Serbia che ha sortito gli effetti desiderati senza far intervenire i soldati a terra, ma molti furono i fattori che contribuirono al crollo di Milosevic, incluse gravi spaccature politiche interne. Più recentemente l’Afghanistan sta a dimostrare che gli aerei e le bombe intelligenti poco possono contro combattenti che sanno mimetizzarsi tra i civili e contro i quali nemmeno il soldato tradizionale può far molto. Mentre l’Iraq ha provato che per abbattere il dittatore ci sono voluti appunto i bombardamenti e poi carri armati e fanteria capaci di correre fino alla tana di Saddam e di catturare fisicamente i suoi seguaci.
Che fare allora in Libia? Non è pensabile replicare la strategia irachena con i suoi massicci bombardamenti aero-navali e l’uso di imponenti armate di terra: la verità è che nessuno ha voglia di spendere un numero inaccettabile di miliardi per una vera campagna militare e soprattutto nessuno ha intenzione di mandare a terra soldati la cui morte sarebbe difficile da spiegare per l’ennesima volta alle pubbliche opinioni occidentali e la cui presenza su suolo libico potrebbe essere spunto per una nuova jihad islamica. Siamo dunque in un vicolo cieco? Probabilmente no, alla intensificazione dei bombardamenti e allo sbarco dei Marines esistono ancora delle alternative che non diano soddisfazione alle riscoperte voglie belliciste di Francia e Gran Bretagna.
Esiste una via diplomatica e di intelligenceche crei il vuoto politico interno e internazionale attorno al Rais. In questo senso proprio l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante: da sempre ben introdotti in Libia sia a livello imprenditoriale che politico, economico e anche di intelligence, laggiù abbiamo la credibilità necessaria a coalizzare forze in grado di esautorare politicamente e in maniera non cruenta Gheddafi. Un lavorio sotterraneo dei nostri servizi segreti può facilmente fare opera di convincimento presso gli uomini di potere a lui ancora vicini, in modo da sottrarre il loro consenso ad un leader seriamente in crisi. Ed il cui futuro, anche in caso di una sua vittoria militare, resterebbe incerto, seduto come rischia di ritrovarsi su un barile di malcontento nuovamente pronto ad esplodere alla prima repressione o alla prossima violazione dei diritti civili.
Le poche risorse disponibili dovrebbero essere focalizzate su una azione di erosione della leadership del Colonnello all’interno della sua cerchia più interna, a partire dai figli stessi fino ai funzionari governativi di livello medio/alto, prospettando un futuro di legittimazione e di riconoscimento del loro impegno ad abbattere il dittatore. Se necessario facendo ricorso ad offerte di denaro e di salvacondotti. Viceversa l’attuale conflitto rischia di protrarsi a lungo, con un aumento di vittime tra i civili e senza uscire da una situazione di stallo. Con il Rais che continua a propagandare improbabili successi militari, con i lealisti ridotti ad usare le proprie depauperate risorse militari finendo per assomigliare sempre più ai loro avversari, con i rivoltosi esasperati dalla mancanza di determinazione della Nato, con una situazione tattica di blocco totale o alla meglio caratterizzata da estenuanti avanzate e ritirate attraverso le linee di difesa attorno a Misurata o attorno ai giacimenti petroliferi.
*docente di studi strategici, Università di Trieste