E ora Obama ha paura dell’alleato turco

E ora Obama ha paura dell’alleato turco

Da grande alleato a sorvegliato particolare. La Turchia, da sempre una delle sponde più importanti nel Mediterraneo per gli Usa, adesso è diventato uno dei Paesi che dà a Washington più pensieri. L’amministrazione Obama, negli ultimi mesi ha pensato bene di farglielo capire chiaramente, inviando come ambasciatore ad Ankara Francis Ricciardone, diplomatico di lungo corso e già capo missione a Kabul.

Una scelta che per la Turchia suona come un campanello d’allarme, o quanto meno dovrebbe. Ricciardone infatti non è un clara fama o un ambasciatore di nomina politica, ma un mastino della professione, uno che, evidentemente, è stato mandato lì per capire come vadano le cose.

Al diplomatico spetta già un record. In poche settimane è entrato in contrasto due volte con il premier Erdogan e sempre per lo stesso motivo: la mancanza di libertà di stampa. Ricciardone la prima volta si è limitato a chiedere ai giornalisti turchi perché nel loro Paese i giornalisti finiscano in carcere, facendo riferimento ai sette reporter arrestati fra febbraio e marzo con l’accusa di fare parte dell’organizzazione eversiva Ergenekon. Nei giorni scorsi ha rincarato la dose criticando apertamente le misure governative per tutelare la libertà di espressione, defindendole scarse.

Gli advisor del premier si sono prodigati in repliche secche. Non solo. Con un tempismo notevole, il premier Erdogan ha criticato l’ambasciata americana che non avrebbe accettato la pratica di sua figlia per ottenere il visto per Stati Uniti perché era velata, norma prevista dagli standard internazionali di sicurezza. Una polemica strumentale, ma che è servita al premier per concentrare l’attenzione verso un problema molto sentito nel Paese, quello del velo islamico, e fomentare un po’ il sentimento anti-americano, da sempre presente nella società turca.

Un botta e risposta, fatto di battute e punzecchiature, che però cela preoccupazioni e motivazioni ben più sostanziose. Sono ormai molti mesi infatti che Ankara sta mettendo a dura prova la capacità di comprensione, se non addirittura la pazienza, di Washington. E questo non solo per i tentativi di diplomazia alternativa messi appunto dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu in Libia o a Gaza.

A impensierire c’è il rapporto con l’Iran di Ahmadinejad. Pochi mesi fa, tre aziende turche sono state colte in flagrante dal Dipartimento di Stato mentre facevano affari con controparti iraniane chiaramente citate nelle sanzioni contro Teheran approvate lo scorso giugno alle Nazioni Unite (dove, occorre ricordare, Ankara ha votato contro). Alla Casa Bianca sono piaciute poco anche le mosse poco ortodosse che la Turchia sta compiendo all’interno della Nato. Prima fra tutte, un’esercitazione dello scorso novembre con caccia cinesi, che avevano fatto rifornimento in Iran e che si sono poi alleati nei cieli turchi con F16 dell’Alleanza Atlantica. Si trattava di aerei da combattimento non di ultima generazione, ma rappresentano pur sempre un’occasione d’oro per i cinesi.

I rapporti con Cina e Russia sono sotto la lente di ingrandimento per una gara di appalto, alla quale partecipano anche gli Usa. La posta in gioco è la fornitura di un sistema di missili che non sarebbe, però, compatibile con lo scudo missilistico dell’Alleanza Atlantica. Lo scudo nascerà nei prossimi anni e un radar chiave potrebbe essere impiantato proprio in Turchia. Sulla questione, il governo Erdogan dovrebbe decidere entro la fine dell’anno. Fonti vicine al ministro della Difesa dicono che vincerà il buon senso.

Per Washington, però, rimane il problema di una Turchia che balla sempre di più da sola, e non ha ancora capito se si tratti di un alleato strategico o di una mina vagante.