La prima reazione di molti accademici e giornalisti americani dopo l’inizio delle rivolte arabe non è stata di sorpresa: sia da parte repubblicana, che democratica, si è tentato di spiegare come la propria fazione non solo avesse già previsto tutto, ma fosse stata la vera artefice del cambiamento.
Fareed Zakaria da Cnn, nonostante un passato da direttore del settimanale liberal Newsweek, ha dichiarato che le rivolte in Tunisia ed Egitto erano state previste da George W. Bush e dal suo piano di portare la democrazia in Medio Oriente. Nonostante i «limiti del suo progetto di politica estera», era necessario ora «dar credito all’uomo». Alcuni giorni dopo, lo stesso Zakaria sul Washington Post ha però riconosciuto anche i meriti del democratico Obama: al contrario di Bush, il nuovo presidente avrebbe «supportato la libertà, insistendo però sul punto che gli Stati Uniti non l’impongono su nessuno». In questo modo, «le rivolte del 2011 appartengono totalmente agli arabi».
Questo punto di vista sul ruolo di Obama è stato sottolineato in particolare da un columnist di punta del liberal New York Times, Thomas Friedman, autore di best-seller global-ottimisti come Il Mondo è Piatto. Per Friedman, il presidente avrebbe fatto qualcosa di radicale verso gli arabi: «ad ascoltare il discorso del 2009 al Cairo – non le parole, ma l’uomo – c’erano non pochi giovani arabi che dicevano a se stessi: “Hmmm, vediamo. Lui è giovane, io sono giovane. Lui ha la pelle scura. Io ho la pelle scura. Il suo nome di mezzo è Hussein. Il mio nome è Hussein. Suo nonno è mussulmano. Mio nonno è mussulmano. Lui è presidente degli Stati Uniti. E io sono un giovane arabo disoccupato senza voto e senza voce sul mio futuro”. Metterei tutto questo nel mix di forze che ha stimolato queste rivolte». Friedman si è anche proposto in numerosi video da piazza Tharir, al Cairo, descrivendo quanto fosse epocale la svolta che stava portando la democrazia nel paese.
Gli schieramenti erano netti: da una parte, i repubblicani dicevano che Bush aveva previsto tutto, e aveva provocato il cambiamento, anche «proponendo la democrazia in Iraq come esempio». Da parte democratica, si affermava invece come il merito fosse di Obama e delle sue iniziative di apertura.
Tutte queste convinzioni hanno iniziato a vacillare non appena si è compreso che per molte delle rivolte l’esito “democratico” sia tutt’altro che scontato. Se l’ideale di una maggiore apertura è ovviamente condivisibile, meno entusiasti possiamo essere sulla piega che le rivolte hanno preso. Il regime militare egiziano, i bagni di sangue in Siria, la guerra in Libia, la svolta etnica in Bahrein, le enormi incertezze in Algeria e Tunisia lasciano intendere che la prima eccitazione politica deve lasciar spazio a qualche ragionamento meno idealista, e più pratico.
Alla luce dei nuovi eventi, Thomas Friedman ha fatto marcia indietro. Ha paragonato la situazione araba con quella dei Balcani dopo lo scioglimento della Jugoslavia. Ha dichiarato di credere ancora nell’inevitabilità delle sommosse, ma che «senza una straordinaria leadership, le transizioni arabe saranno molto più difficili che in Europa dell’Est».
Anche a destra qualcuno ha iniziato a proporre vari “distinguo”. Il politologo Francis Fukuyama ha scritto che un cambiamento democratico è impossibile, «se non sono state prima create le strutture in grado di accogliere i nuovi soggetti sociali». Il rischio è quelli che s’instauri una condizione che Samuel Huntington decenni fa ha definito «Pretorianismo», dominata da «scioperi, dimostrazioni, proteste e violenza».
Qui non vogliamo parlare del merito dell’una o dell’altra fazione, ma sottolineare solo un punto: il ruolo degli intellettuali non dovrebbe essere quello di ripetere con più forza e parole forbite quello che la massa si aspetta. Era chiaro fin dall’inizio che l’esito delle rivolte arabe era incerto, ma si è preferito dar ragione a idee di parte per calcoli politici e di schieramento. Eppure, è proprio sulla capacità di analizzare con freddezza e indipendenza gli eventi, che si basa la leadership. Se le opinioni diventano pubblicità, non ne ha bisogno nessuno – tantomeno gli arabi.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org