Ormai da anni la scena è ferma a quel 25 aprile 1994. Riepilogo per chi non c’era. Silvio Berlusconi e Forza Italia prima versione avevano appena vinto le prime elezioni della “seconda Repubblica”. Per molti il governo che esce dalle urne del 27 marzo 1994 è la base per un regime, che avrà lunga vita.
È anche per questo che nelle settimane che seguono, con la convinzione che occorra contarsi per davvero, il manifesto lancia l’idea di trovarsi tutti a Milano il successivo 25 aprile in occasione della festa per la Liberazione.
Improvvisamente, quella che ormai da anni era solo una scadenza rituale acquista un nuovo sapore “partigiano”, e dunque torna a essere una data militante.
Quella giornata me la ricordo bene. Sotto una pioggia torrenziale che rende ancora più determinata la partecipazione di chi scende in strada, improvvisamente tornano a essere di attualità e ad avere nuova forza slogan, parole, musiche. È l’idea che l’armamentario ideologico, simbolico, estetico, fisico che è stato travolto dalla storia sia di nuovo riproponibile, ripristinando gli strumenti culturali, linguistici, gestuali che rivendicano per sé la prima vittoria. Ottennuta contro il regime di Mussolini.
Quella che si costituisce sotto quella pioggia è anche l’idea di essere una comunità di destino sulle cui spalle ricade il peso della storia. E che eredita il testimone di quella precedente dagli stessi che allora – cinquant’anni prima – c’erano. In quella scena si entra solo in nome di quel passato, e nella continuità di posizione di quel passato. È significativo infatti che, per quanto ridotti, provino a infilarsi nel corteo che si snoda tra Porta Venezia e Piazza Duomo a Milano, il percorso di tutti i cortei di massa del 25 aprile, vari gruppi, guardati tutti come “corpi estranei”: dapprima un drappello della Lega, poi un nucleo di Forza Italia. Non ci riusciranno.
Sul 25 aprile, insomma, è tornato a “fischiare il vento”, e poco cambia se quelli di An devono mantenre un’equa distanza perchè troppo fresco è l’inizio di un percorso che porterà tutti lontano. Nel febbraio precedente, infatti, il partito di Gianfranco Fini ha intaccato per la prima volta la memoria storica del fascismo come presupposto della propria azione politica.
In quella scena e nella manifestazione che ne segnò le tappe – lancio dell’iniziativa dalle pagine del quotidiano il manifesto; gestione presa in mano dall’Anpi; ruolo centrale dei nuovi sindaci, appena lanciati dalla prima elezione diretta sperimentata nel novembre 1993) – l’idea è quella che ci sia un’“Italia sana” a cui appartiene il 25 aprile e che è l’erede legittima di quella data. Gli altri non sono i protagonisti di quella giornata: sono al potere, hanno numericamente la maggioranza, forse sono anche l’essenza dell’Italiano, ma sono tutto ciò che non vogliamo essere.
Silvio Berlusconi per questa Italia è esattamente l’icona e la summa dei vizi nazionali da cui basta prendere le distanze, senza neanche dotarsi di un progetto alternativo. Del resto “basta guardarlo per capire ciò che non si vuol essere”. Insomma l’antifascismo da cultura politica, da memoria storica, si trasforma in repertorio del proprio gusto. Un catechismo che, come tutti i catechismi, non cambia, non deve cambiare, altrimenti il rischio è la dissoluzione del credo.
Allora come oggi, il Paese, quando si trova davanti al 25 aprile, si spacca insomma in tre: una parte istituzionale, peraltro sempre più autoreferenziale, che produce cerimoniali e rituali; una parte militante, ovviamente di minoranza, che produce industria del ricordo; una terza parte in crescita che semplicemente si gode il giorno di festa, come gli atei e i miscredenti che non rinunciano al Natale, solo per l’opportunità del ponte o della pennica pomeridiana.
Il risultato è un Paese che non riesce a trovare un luogo originario della sua storia, a stabilire una catena di eventi condivisi che lo fanno essere ciò che è, a trovare una data precisa per dichiarare chi è “noi”: e mai come in un anno costellato di appuntamenti per il 150esimo dell’Unità lo si vede bene.
Ma è anche una categoria che ci riporta indietro alle origini di questo nostro Paese. Un Paese, ricordiamolo, che è stato costruito perché molti volontari, senza il fascino del soldo, “gratuitamente” hanno sentito che era giunto il loro momento, che lì si trattava di contribuire a una definizione possibile di futuro e che soprattutto volevano esserci. La maggior parte di loro non sapeva quello che avrebbe voluto per dopo, ma sapeva ciò che non voleva più. E aveva una sola possibilità per dirlo, provarci. Una determinazione, come diceva Vittorio Foa, mossa dalla nostalgia del futuro che obbliga a “partire dalle cose amate per cercare”, e accetta il rischio che quel che verrà dopo non sia all’altezza delle attese e dei sogni.
È ciò che si chiama passione della e per la politica. Una cosa diversa dal tifo da stadio e dallo spirito gregario della curva.
*storico