Attenti alla Spagna, la rivolta riguarda anche noi

Attenti alla Spagna, la rivolta riguarda anche noi

Non lasciamoci confondere dalle somiglianze estetiche: l’assembramento e le proteste alla Puerta del Sol, a Madrid, hanno poco a che fare con la rivolta di Piazza Tahrir, in Egitto. Cambiano motivi, obiettivi, partecipanti.

Quella egiziana è stata una protesta contro sistema di potere politico bloccato, incapace di cogliere le aspirazioni della “modernità” nazionale. Per ora, come previsto da Linkiesta già alcuni mesi fa, la rivolta è stata “rapita” dai militari. Il popolo preme però ancora verso un’espressione maggiormente identitaria, come spesso è accaduto nelle “rivolte moderne”.

La Spagna è una democrazia pienamente espressa. Il governo ha cambiato colore più volte nel corso degli ultimi anni, esprimendo esecutivi dal contenuto ideologico “forte” (da Aznar a Zapatero), senza per questo provocare fratture violente nel sentimento nazionale. Facendo leva su una politica di appeasement e tolleranza, le tensioni con i movimenti indipendentisti si sono poi ridotte in intensità nel corso degli anni.

L’obiettivo della protesta spagnola non è il sistema politico, ma la struttura sociale. La disoccupazione nazionale è quasi al 20 per cento, mentre quella giovanile è del 45 per cento – rispetto al 17,5 di soli quattro anni fa. Molta della perdita è stata dovuta al rallentamento del settore immobiliare, ma anche al calo di competitività del manifatturiero che con l’euro forte non è in grado di reggere la competizione internazionale.

A far scattare la protesta, in particolare, è stato il fatto che gran parte della perdita di posti di lavoro negli ultimi anni è dipesa dal mancato rinnovo di contratti a termine. Ai giovani è stata chiesta la pazienza di mettersi in fila per entrare, prima o poi, nel mercato occupazionale “dei grandi”, con sentieri di carriera più definiti: non proprio un “posto fisso”, ma almeno qualcosa con maggiori prospettive rispetto agli accordi di collaborazione.

Adesso la sensazione è che immobiliaristi e banchieri si siano goduti la festa, e che sulle spalle dei giovani poggino i costi della crisi. Gli spagnoli sotto i 35 anni stanno invadendo Berlino e Londra in cerca di lavoro e di condizioni di vita più dignitose. Emigrano sperando in collocazioni in cui gli sforzi di formazione abbiano un valore: il 50 percento dei laureati spagnoli nel 2009 non ha impiego, o è occupato in una posizione che non richiederebbe titolo di studio.

A osservare tutti questi elementi, emerge come le recenti proteste spagnole, più che alle rivolte arabe, somiglino all’ “Onda Viola” italiana. La protesta è sociale, non politica. I ragazzi di Madrid non sgombreranno la piazza se le elezioni dovessero essere perse dai socialisti.

Se le rivolte arabe sono movimenti “identitari”, le proteste europee sono manifestazioni “generazionali”. Chi è arrivato troppo tardi per il boom degli anni Novanta, chi è stato sfortunato o non abbastanza rapido da approfittare dei “crazy 2000s”, ha ormai ben pochi strumenti per progettare il proprio futuro. La “presa di potere” della rivoluzione finanziaria miete nel Sud d’Europa vittime di una rivoluzione mai avvenuta.

Gli spagnoli hanno svenduto le proprie coste ai progetti immobiliari, e hanno ancorato lo stato e le finanze pubbliche a decenni di debiti da pagare. Lo stesso, su altra scala, sta avvenendo in Italia. Entrambi i paesi si trovano incatenati a un patto monetario che favorisce le esportazioni tedesche, mentre Berlino taccia a torto il meridione del continente di pigrizia.

Ci sono enormi rischi. La strada “virtuosa” è quella di un nuovo patto sociale, con una migliore distribuzione del reddito, e finalmente una vera apertura alle realtà imprenditoriali giovanili. Esiste però anche una via populista: cavalcando le proteste, governi edonistici in cerca di apprezzamento generale potrebbero sentirsi autorizzati a dichiarare default e a uscire in tutta fretta dall’euro. Ciò prolungherebbe la crisi, e annienterebbe le aspettative anche delle prossime generazioni: i paesi “fuoriusciti” entrerebbero in una “Serie B” finanziaria da cui uscirebbero con enorme fatica.

Si sente dire che “tanto lo ha già fatto l’Argentina, e non stanno poi messi molto male”. Il problema è che l’Argentina del 2002 non era un’economia industrialmente sviluppata” come quelle europee di oggi. Le opportunità di crescita in Argentina sono superiori a quelle di casa nostra, proprio perché il paese sudamericano è ancora indietro nella crescita. Da noi, un default distruggerebbe un patrimonio economico creato in sessant’anni di impegno. Le piazze avranno la maturità di comprendere tutto questo?  

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