La strategia, lungi dall’essere arte divinatoria in grado di prevedere il futuro, è piuttosto un metodo che consente di individuare scenari possibili in base ai quali definire politiche economiche, militari o diplomatiche a tutela dell’interesse nazionale o delle alleanze alle quali si appartiene. Non è neanche un scienza esatta, sebbene, da Sun Tzu a Von Clausewitz, le grandi menti strategiche abbiano cercato di individuare regole universali valide in ogni contesto ed in ogni tempo. Ma le variabili che inevitabilmente la storia inserisce nelle vicende umane rendono molti dogmi strategici inutilizzabili o inapplicabili in molte circostanze.
Quanto vediamo accadere oggi dimostra appunto la debolezza di alcuni principi classici della strategia: allo stato attuale delle cose la gamma di scenari internazionali possibili è alquanto vasta e disegnare strategie atte ad affrontare ogni futura evenienza è diventata cosa assai complessa, incerta e poco scientifica a causa della mole e della diversità degli input che la cronaca di questi giorni fornisce a chi di strategia si occupa.
Chi poteva solo cento anni fa immaginare che oggi le rivoluzioni viaggiano in rete? La situazione è estremamente confusa: i moti nord africani coincidono con gli scontri nel Golfo e in Siria, con l’eliminazione di bin Laden e con una ripresa degli scontri in Medio Oriente, dove l’esercito israeliano ha sparato su palestinesi provenienti dalla Siria. A fronte di questi avvenimenti, restare alla finestra in attesa di capire come finisce senza elaborare una strategia potrebbe non essere la cosa giusta da fare: si pone il problema di come e in quale misura intervenire in Libia, oltre alla campagna aerea in corso.
Occorre decidere se stare al fianco di regimi discutibili, come quello saudita o yemenita, o se schierarsi con chi li vuole abbattere; bisogna tentare di capire cosa ci aspetta sul fronte terroristico e quali debbano essere le eventuali contromisure, nell’eventualità di un colpo di coda qaedista. Occorre poi decidere cosa fare in Afghanistan, ora che il motivo che fondamentalmente ha condotto alla sua invasione è stato rimosso.
Prendiamo ad esempio il Pakistan: l’eliminazione di bin Laden, ufficialmente, avrebbe aperto una voragine nei rapporti con gli Usa, cruciali in funzione della lotta al terrorismo e in funzione degli equilibri in quel quadrante del pianeta. Si tratta pur sempre di una Paese che possiede testate atomiche: il timore che il dito sul pulsante di sparo possa appartenere a elementi anti-occidentali o integralisti è un buon motivo per esercitare particolare cautela. In realtà, la sensazione è che il balletto pakistano del “non lo sapevamo” (in merito alla presenza di bin Laden) faccia parte di un copione pre-scritto ai tempi di Musharraf, inclusivo di finto oltraggio per l’eventuale sconfinamento di forze speciali, in modo tale da non esporre il governo di Karachi alle reazioni della piazza pro-Osama. Se così è, i rapporti con gli americani sono ben lungi dall’essere compromessi: semplicemente Obama fa finta di aver fatto tutto da solo e Karachi fa finta di essere ignara di tutto.
Potrebbe non bastare: le proteste dei seguaci ed estimatori di bin Laden sembrano aver fatto da sfondo ad alcuni recenti attentati kamikaze. La questione Pakistan resta così sul tavolo, aldilà delle ipotesi costruite attorno all’uccisione dell’uomo più ricercato della storia. A ben guardare, il rapporto degli occidentali con quel Paese esiste solo dal 2002, anno dell’invasione dell’Afghanistan, e solo in funzione di contenimento dei Talebani e di Al Qaeda. Prima di allora, era una nazione marginale, di cui a nessuno interessava granché, eccezion fatta per la contesa del Kashmir, che avrebbe forse potuto detonare una guerra nucleare con l’India. Una faccenda troppo remota, tutto sommato, per mettere in agitazione gli Usa, Nato e Ue.
Ma ora che, venuto a mancare il pretesto ufficiale e l’abbandono dell’Afghanistan diventa una ipotesi da considerare, a cosa ci serve ancora il Pakistan? Gli ultimi attentati terroristici, tra l’altro, stanno colpendo la sua popolazione e non l’Occidente: cinicamente, il cosiddetto consesso delle nazioni avanzate potrebbe semplicemente ri-dimenticarsi del Pakistan, che, esaurita la sua funzione di supporto all’individuazione di bin Laden, potrebbe essere abbandonato di nuovo al suo destino di paese dilaniato da scontri religiosi e tra clan.
Sarebbe molto probabilmente un errore. La mancanza di attenzione alle vicende interne di un altro paese (l’Afghanistan) ha avvallato la presa del potere da parte di una teocrazia spietata che ha dato copertura politica alla multinazionale del terrore, fornendo i campi militari nei quali gli attentatori dell’11 settembre si sono addestrati. Voltarsi dall’altra parte e lasciare che in Pakistan quelle medesime forze prendano il sopravvento (ovvero non sostenere l’attuale governo), potrebbe significare assistere ad un replay, con trasformazione di quella nazione in una nuova base del terrorismo internazionale. E questa volta con disponibilità di arma nucleare.
Viceversa, ogni azione di supporto all’attuale presidente Ali Zardari espone grandemente gli occidentali alle critiche di chi, legittimamente, punta il dito contro l’ingerenza di diplomazie straniere nelle vicende interne di un Paese sovrano. Ancora una volta, la linea che separa il diritto all’autodeterminazione dei popoli dalla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo è molto sottile. Proteggere il Pakistan dal cadere nelle mani di una brutale e liberticida egemonia religiosa potrebbe implicare il dover varcare quella linea. Cosa per altro che non abbiamo esitato a fare in Libia, con premesse poco chiare e esiti tutt’altro che soddisfacenti.
Il “mondo libero” è intervenuto per proteggere la popolazione civile dalla reazione delle forze leali al Rais, ma tutt’oggi non siamo in grado di sapere esattamente chi siano i membri del comitato che gli si oppone né sappiamo se i numeri dei caduti civili, prima dell’intervento Nato, fossero realistici. In poche parole, siamo corsi appresso ai francesi senza sapere esattamente cosa stavamo facendo, senza sapere chi ci apprestavamo a sostenere militarmente e senza sapere se davvero eravamo di fronte a una emergenza umanitaria con migliaia di vittime innocenti della repressione. Secondo molti analisti, si è trattato di un inaccettabile esempio di ingerenza negli affari interni della Libia: un precedente che forse occorreva creare per giustificare interventi futuri in altri paesi alle prese con le proprie guerre civili. Un comodo ombrello sotto il quale poter riparare anche in caso di intervento in qualche paese del Golfo, o in Pakistan, oppure per restare sine die in Afghanistan.
Non ci è chiaro perché in Libia da spettatori siamo diventati protagonisti del conflitto. O meglio, molte sono le ragioni che dietro alla tutela della vita dei civili nascondono l’intervento Nato, esattamente come dietro al concetto scivoloso di “esportare la democrazia” in Iraq si sono celate politiche energetiche inconfessabili. In Afghanistan, allo stesso modo, ci si è nascosti dietro alla foglia di fico della “democrazia da esportazione” per condurre una guerra su vasta scala al terrorismo, all’interno della quale la sorte politica degli Afghani non è mai stata la vera priorità, considerata anche la loro impreparazione culturale e sociale a gestire una democrazia di stampo occidentale.
Il Pakistan rischia di seguire la stessa sorte: ovvero, alla fine di un travagliato periodo di tensioni, di vedere andare al governo i Talebani e i fondamentalisti, mentre l’Occidente resta a guardare. Salvo poi, a cose fatte, tentare di esautorare militarmente il nuovo governo usando come pretesto l’ultimo attentato terroristico condotto da chi in Pakistan ha trovato asilo e si è addestrato.
Non si può arrivare a quel punto. Occorre avere una strategia che guidi il Pakistan verso la stabilità interna e la convivenza pacifica con la vicina India e con il resto del mondo. Non si tratta di esportare democrazia. Per l’Occidente si tratta, più pragmaticamente, di auto-tutelarsi ed evitare che il Pakistan diventi il prossimo paradiso di chi complotta attentati contro di noi e si trasformi in un fattore di crisi per una regione che già ha altri problemi.
Alla fine il quesito resta: fino a dove il nostro diritto alla autodifesa può spingersi? Possiamo colpire i carri armati di Gheddafi solo quando sparano sui civili o anche quando sono parcheggiati a centinaia di chilometri dal fronte? Possiamo colpire i terroristi quando sono a casa nostra o anche quando sono ad addestrarsi a migliaia di chilometri da qui? Da un punto di vista etico, a queste domande è difficile rispondere. Ma una leadership responsabile non avrebbe dubbi di sorta, anche quando etica e pragmatismo non viaggiano sullo stesso binario.
*Professore di studi Strategici – Università Trieste
Preside Università Pentagono – Padova