E se stessero interrogando Osama?

E se stessero interrogando Osama?

Dieci anni di caccia all’uomo, di operazioni clandestine condotte da Special Forces in territori ostili, di interrogatori a Guantanamo, di informatori corrotti a peso d’oro, di confidenze raccolte tra la popolazione e tra elementi delle forze di sicurezza pachistane, di tante delusioni e false speranze, hanno finalmente portato alla eliminazione di Osama bin Laden. Finisce un’epoca, un fase dove le molte frustrazioni sono state esasperate dai messaggi audio e video del carismatico sceicco del terrore che sembravano beffarsi della imponente caccia all’uomo messa in moto da una poderosa coalizione per braccare l’uomo più ricercato del pianeta.

Finisce anche la stagione delle battute sarcastiche sul più sofisticato meccanismo di intelligence mai attivato, che non riusciva ad individuare un leader che vagava a suo piacere schivando trappole in territori controllatissimi da mille servizi segreti e da un numero infinito di spie prezzolate. Finisce soprattutto una fase storica del terrorismo globale, privato della mente organizzativa ma soprattutto dottrinale, del teorico che sugli attentati aveva basato la politica espansionista dell’Islam radicale, fino a prefigurare un unico gigantesco califfato che dal Pakistan si stendesse fino alle sponde del Mediterraneo, ridando vita al sogno medievale accarezzato dai sultani ottomani. Quel sogno è ora definitivamente tramontato, mancandone il teorico principe e non profilandosi all’orizzonte nessuno in grado di “vendere” ai fedeli dell’Islam un visione di così vasta portata. La guerra per la successione, che pare già vinta dal numero due di Al Qaeda Al Zawahiri, porterà alla guida della organizzazione terroristica una pallida copia di bin Laden, che d’altra parte siederà al vertice di una pallida copia di quella che fu la più temuta e meglio organizzata multinazionale del terrore che la storia ricordi.

Infatti Al Qaeda non è da molto tempo la stessa macchina da guerra che nel passato fu in grado di portare attacchi al centro di New York, in Kenia, in Libano, nello Yemen o in Indonesia. Oggi in totale autonomia restano pericolosamente attive cellule indipendenti, in grado di perpetuare il clima di paura inaugurato da Bin Laden, ma senza avere bisogno che da un lontano “quartier generale” parta l’ordine di attacco. Ecco allora aprirsi la nuova fase del terrorismo globale, all’insegna della libera imprenditoria del terrore, rappresentata da gruppi di fanatici che ispirati dal pensiero di bin Laden, ma incapaci di elaborarne uno proprio, che riesca, nel lungo periodo, a dare continuità e coerenza alle proprie possibili iniziative terroristiche.

Dobbiamo logicamente aspettarci azioni dimostrative e di ritorsione, generate dalla rabbia per la perdita di un capo indiscusso, ma esaurita la fase della vendetta, la mancanza del pensiero influirà sullo sviluppo di un piano politico organico, ad essa seguirà la fine dell’azione. In buona sostanza, dopo la fase del grande proselitismo e dei successi e dopo quella della fuga tra gli anfratti montagnosi di Afghanistan e Pakistan, è iniziata per il terrorismo una fase di declino, i cui primi segni si sono colti quando i servizi di sicurezza americani, afghani e israeliani hanno registrato qualche anno fa un consistente calo nei reclutamenti di Al Qaeda e l’utilizzo, come attentatori suicidi, di donne, di bambini e di malati di mente, un segno inequivocabile che già da almeno cinque, sei anni, Bin Laden stava raschiando il fondo del barile.

In queste ore restiamo incuriositi dalla strana faccenda della foto spacciata per quella del suo cadavere, mentre torna a girare la mai del tutto screditata teoria secondo la quale il capo della multinazionale del terrore sarebbe morto nel dicembre 2001 per le complicazioni di una brutta polmonite, fatale su un corpo già minato da un blocco renale. A suo tempo anche il Capo dell’Antiterrorismo dell’Fbi, Dale Watson, sostenne che bin Laden «potrebbe essere morto», ma è solo oggi che egli è definitivamente e ufficialmente dichiarato defunto. Per gli amanti delle conspiracy theories possiamo tranquillamente dire che neanche oggi abbiamo la certezza che egli sia davvero stato ucciso, in fondo il suo cadavere non lo ha visto nessuno, ad eccezione dei SEALs che avrebbero provveduto a sopprimerlo. Tutta la faccenda delle esequie a bordo della portaerei Carl Vinson e della sepoltura a mare costituisce per gli appassionati una miniera di spunti per mettere in discussione la versione ufficiale, e le ragioni per ritenere Osama ancora in vita, nascosto in qualche base segreta, non mancano.

È possibile che la missione fosse finalizzata a rapirlo, più che ad eliminarlo, le cose possono plausibilmente aver preso una brutta piega e la sua uccisione potrebbe essere ascritta ad uno spiacevole contrattempo, ma se invece fosse stato davvero catturato vivo certamente la versione ufficiale sarebbe identica a quella che oggi ascoltiamo dalla Casa Bianca. È fin troppo evidente che Bin Laden vivo ed in grado di parlare (se necessario sotto l’effetto di farmaci e sostanze psicotrope) farebbe molto comodo alla Cia, come è vero che se davvero lo stanno interrogando al termine di una messa in scena ben organizzata, non lo rivelerebbero al mondo. Ma questo è pane per la moltitudine di teorici della cospirazione che non smetteranno di sfornare affascinanti teorie fino a quando, prima o poi, uno spezzone del filmato girato dai SEAL vedrà la luce e finirà tra le mani di qualche direttore delle news di un importante network americano. A quel punto i più si convinceranno che il Presidente non ha mentito e qualche membro del team SEAL che ha condotto l’azione si congederà per scrivere le proprie memorie e la sceneggiatura dell’immancabile colossal che celebrerà la fatidica notte di maggio 2011.

A noi per ora non interessa capire quale sia la verità, interessa capire cosa accade ora che la cosa è ufficiale. Intanto capire chi ci guadagna subito: Obama. A quasi dieci anni esatti dalle Torri Gemelle, il Presidente porta a casa un successo per il quale il suo predecessore avrebbe fatto carte false, una benedizione in termini di immagine, preziosissima in vista delle prossime presidenziali. Con il consenso in calo e l’economia che non riparte abbastanza vigorosamente, si tratta per il capo della Casa Bianca di un formidabile colpo di fortuna che aumenta non di poco la sua chance di vincere un secondo mandato. Un trionfo per il quale Obama molto si è impegnato, a partire della rivoluzione da lui voluta ai vertici del Pentagono e della Cia.

Ma aldilà di queste considerazioni sulla politica interna Usa, ci interessa di più rilevare un elemento crediamo molto significativo: l’eliminazione di bin Laden avviene immediatamente dopo la nomina del Generale Petraeus a capo della Cia. Il suo predecessore Leon Panetta aveva attivamente osteggiato la trasformazione dell’agenzia in una organizzazione para-militare, preferendo un impegno attivo nelle operazioni di bombardamento mediante droni e la creazione di basi segrete dalle quali far operare un numero maggiore di operativi. Viceversa Petraeus ha aggressivamente spinto verso l’inserimento di militari professionisti all’interno della Cia e nelle sue operazioni, verso l’impiego di forze speciali e addirittura anche verso l’utilizzo di contractor privati per la raccolta di intelligence anche in Arabia Saudita, Iran, Yemen, Giordania e altre aree non propriamente in guerra.

Oggi il mix soldato/spia sancisce la validità di questa formula con il miglior risultato in dieci anni di infruttuosi tentativi e, a volte, di avvilenti fallimenti. Naturalmente questa nuova dottrina, che di fatto rende confusa la tradizionale linea che divideva la spia dal soldato, ha fatto storcere il naso ai molti che a Washington la considerano spregiudicata, pericolosa e fuori dai dettami della Costituzione. Sussistono oltretutto problemi di ordine legale internazionale: più un soldato è coinvolto in operazioni di spionaggio in territorio nemico, meno la convenzione di Ginevra gli offre copertura in caso di cattura. Però se guardiamo i risultati non resta che concludere che la riforma Petraeus è vittoriosa: la militarizzazione della Cia ha intanto fruttato il migliore risultato di sempre, con i SEALs che hanno lavorato in strettissimo coordinamento con la Cia, tanto da esserne il braccio operativo.

Cosa ci aspetta ora? Come accennato si tratta di un passaggio epocale, in linea di principio è lecito aspettarsi conseguenze positive per la guerra in Afghanistan o perlomeno la fine del terrorismo come lo abbiamo conosciuto fin qui, ma abbassare la guardia è davvero prematuro. Bin Laden è stato l’ideologo, il padre spirituale ed il fondatore del network di Al Qaeda, ma la sua creatura ha già ampiamente dimostrato di vivere una vita propria, trasformandosi in “qaedismo”, in una galassia di cellule indipendenti che, pur nel solco della filosofia osamiana, decidono da sole, scelgono il bersaglio e portano a termine un attacco senza l’input del vate politico/strategico, da lungo tempo dimenticato da qualche parte tra Afghanistan e Pakistan. Per questi imprenditori del terrore in franchising, che bin Laden sia morto è irrilevante, l’importante è portare avanti la sua visione politica, religiosa e militare. A Londra, tra i colpevoli dell’ultimo attentato, c’erano anglo-pakistani di terza generazione, per cui bin Laden è stato solo un simbolo ispiratore, non certo il capo militare da cui hanno ricevuto gli ordini.

Sperare che oggi la minaccia del terrorismo sia definitivamente tramontata è dunque un azzardo, tuttavia un moderato ottimismo è legittimo. L’Afghanistan potrà meglio marciare sulla strada della stabilità, ora che il gran capo dei mestatori non potrà divulgare i suoi messaggi. Il fronte terroristico è indebolito a livello locale e in tempi più lunghi lo sarà anche a livello globale. Alla fine la perdita dell’ideologo influirà anche sulla costanza di quanti agiscono nel suo nome in altre aree del pianeta perché, come detto più su, senza il pensiero non può esserci azione. Insomma, alla fine bin Laden è meglio che sia morto piuttosto che vivo, anche l’immaginario collettivo dei fanatici integralisti finirà per convincersi che senza una “visione” il movimento è destinato a spegnersi. Certo, possiamo aspettarci colpi di coda, ma le premesse per il tramonto di questa forma di lotta politico/religiosa/militare ormai ci sono tutte.

A noi non resta che porci alcune domande: quale è stato il ruolo dei pachistani in questa vicenda? La versione ufficiale vuole che il governo di Islamabad non ne sapesse nulla, ben supportato da Obama che afferma di aver avvisato il Pakistan a cose fatte. C’è qualcosa che non va, come è possibile che il corriere che ha involontariamente portato alla roccaforte di Bin Laden fosse sotto sorveglianza degli americani da circa due anni senza che nessuno dei servizi pachistani si accorgesse che l’uomo era ultra sorvegliato? Come mai la villa stessa (a duecento metri da una scuola di polizia!) era stata mappata, fotografata e osservata per mesi dalla Cia e da vari operativi in loco senza che questa macchina investigativa sia mai stata intercettata dall’Isi, i servizi pachistani? Come è possibile che l’intera operazione, con tre elicotteri e una quarantina di uomini coinvolti, sia stata condotta senza allarmare la Difesa pachistana?

Le risposte possono essere diverse, ma tutte obbligano il Pakistan a fornire la stessa versione ufficiale: «non ne sapevamo nulla». Ogni segno di complicità con gli americani metterebbe in pericolo la già incerta stabilità di quel paese, causando moti di piazza e il probabile ribaltamento dell’attuale, debole, coalizione di governo. Quale sia il grado di cooperazione fornito dai pachistani, quali siano gli uomini dei servizi locali coinvolti, quale il loro livello e se la loro partecipazione sia stata a titolo personale o a nome del governo non ci è dato sapere, ma collaborazione c’è stata. Viceversa l’operazione non avrebbe avuto un tale successo. Chi, nei servizi pachistani ha aiutato la Cia può benissimo averlo fatto autonomamente, per personali ragioni etiche o politiche, forse per denaro. Avrebbe nel caso operato di nascosto, al di fuori della copertura della propria struttura e forse in disaccordo con i propri superiori, considerata la forte componente pro-talebana e anti-americana all’interno dell’Isi. Oppure lo ha fatto nel contesto di un impegno preso dalla propria organizzazione e dal proprio governo nei confronti degli americani, eseguendo ordini superiori. In ogni caso oggi è più prudente per i pachistani negare ogni coinvolgimento, ma, per chi analizza queste vicende, appare poco probabile una totale loro estraneità.


*Professore di studi Strategici – Università Trieste
Preside Università Pentagono – Padova

 

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