Davide Barzi È nato a Milano nel 1972. È scrittore, sceneggiatore, giornalista e storico del fumetto. Ha scritto storie per molti dei personaggi della Warner Bros. Sceneggiatore, crea numerosi personaggi, tra cui No Name (insieme al disegnatore Oskar), che ottenuto il secondo posto al Premio Pierlambicchi di Prato e uno speciale riconoscimento per la migliore storia umoristica al Premio Fumo di China. Come giornalista, critico e storico del fumetto è tra i collaboratori delle manifestazioni Cartoomics, Cartoon Club-Riminicomix e Lucca Comics&Games, oltre che della Guida al fumetto italiano. Scrive per le riviste specializzate Fumo di china, If, Ink, Schizzo e Scuola di fumetto e collabora con diverse case editrici, tra cui De Agostini e Sergio Bonelli Editore. Cura per Epierre la collana Quaderni d’autori, per due anni di seguito al secondo posto al Premio Franco Fossati per il miglior saggio nazionale sul fumetto, mentre nel 2002 realizza, con Stefano Gorla e Paolo Guiducci, Carta Canta.
Sergio Gerasi È nato nel 1978 a Milano. Disegnatore, esordisce nel 2000 sulle pagine di «Lazarus Ledd» (Star Comics), di cui realizza numerosi episodi e alcune copertine. Realizza inoltre cover per la serie Rourke e per Agenzia Incantesimi. Dal 2006 disegna anche per le testate Jonathan Steele, Nemrod, Cornelio (il fumetto di Carlo Lucarelli), John Doe, L’Insonne, Trigger, Valter Buio e per Planeta DeAgostini Harry Moon. Per il mercato statunitense produce Connect e Horrorama, collaborando inoltre a volumi antologici curati dal regista Brian Yuzna. All’attività di disegnatore (che lo vede impegnato anche nella realizzazione di libri scolastici) accosta quella di storyboarder, nonché di scrittore/regista di videoclip musicali e cortometraggi. Ha recentemente pubblicato il suo primo lavoro come autore unico: le Tragifavole (ReNoir Comics) un libro a fumetti con dentro un disco. È batterista e fondatore del gruppo rock 200Bullets
ReNoir Comics è una giovane casa editrice di Milano. Nata dall’esigenza di cercare una grande qualità – nella scelta dei temi, delle parole, delle immagini, dei materiali e dei linguaggi – e uno sviscerato amore per il fumetto.
Io e Giorgio Gaber
di Claudio Bisio
© ReNoir editore
Gaber. L’ho incontrato poche volte: in un camerino del teatro Strehler dopo un suo spettacolo a discutere in modo particolarmente animato e partecipato insieme a Fausto Bertinotti del contenuto dei suoi testi; per strada a Milano, via Catalani angolo via Porpora, in quel dedalo di vie care al giallista Renato Olivieri, padre del commissario Ambrosio, ma anche zona di residenza del pittore Emilio Tadini, dello scrittore Giorgio Terruzzi e da qualche anno anche mia; a Venezia al teatro Goldoni dove è stato direttore artistico per alcuni anni e dove ho partecipato a un concorso per comici (unico della mia vita) e sono stato eliminato subito (quell’anno vinsero i Duemendi, cioè la coppia Paci-Ceccherini)… e poi tante volte l’ho incontrato a sua insaputa: io seduto in poltrona, al buio, lui sul palco, magari con belle luci sagomate di taglio, con in mano un microfono. Io seduto. A vederlo. Ma soprattutto ad ascoltare. Ascoltare quelle parole mai prevedibili: una canzone d’amore che diventa politica, un monologo politico che diventa comico, una pausa che fa riflettere e poi magari ridere oppure indignare… Ricordo tanti anni fa, al teatro Odeon, la borghesia di Milano che andava ad applaudire Dario Fo che la prendeva in giro, e non se ne accorgeva… «Non parla mica di me… però ce n’è di gente così, ah se ne conosco…». Con Gaber era il contrario: semmai c’era qualcuno di troppo che s’incazzava: Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. «Senti chi parla!» Qualcuno era comunista perché abbiamo il peggiore partito socialista d’Europa. «Però quando c’è da avere le sovvenzioni…» Al bar Casablanca, seduti all’aperto, una birra gelata… parliamo parliamo di proletariato, di rivoluzione. «Ma come si permette! Chi si crede di essere per giudicarci così» etc. etc. Tradurre il suo teatro canzone in fumetto è curioso, non è la prima cosa che ti verrebbe in mente. Se togli il suono della sua voce, il colore del suo sudore, quei gesti spigolosi, dinoccolati, il ginocchio che sale verso il petto e il gomito che scende verso il pube, in quello che gli americani sonorizzerebbero con un “wow!”, ma che era semplicemente uno dei suoi gesti più genuini, una specie di Kiai da arte marziale, da pronunciarsi, anzi urlarsi, tra una canzone e l’altra, alla fine di un monologo ben riuscito, durante gli applausi… che ti rimane? Eppure ho visto i disegni di Sergio Gerasi (ancora abbozzati) e le sceneggiature di Davide Barzi, ho visto gli occhi di quel bambino di nome G. che ha come compagno di banco un altro G., che gli somiglia molto, è semplicemente più pettinato, meglio vestito e con lo sguardo lievemente più disincantato, cinico, più adulto insomma. (Anche se le chiuse comiche, sarcastiche e autoironiche sono tutte del simpatico e triste G. scapigliato.) Le mani di Gaber ci sono: importanti, presenti, protagoniste, a ricordarne la teatralità, l’italianità, la vitalità. Le parole anche, quasi sempre quelle originali… è molto difficile aggiungere parole “altre” a fianco di quelle del Luporini associato con il Gaber (l’articolo davanti al nome ha in questo caso il duplice scopo di sottolinearne tanto la chiara fama quanto la milanesità). A volte persino le loro parole sono assenti, come nel caso del pezzo sulla Libertà, dove i disegni del piccolo e del grande G. non necessitano di parole perché come sappiamo ormai tutti: «La libertà… non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione». Ultima nota per i navigatori: se volete avere notizie più complete e approfondite su Giorgio Gaber andate pure su www.giorgiogaber.it e vi troverete il sito ufficiale della fondazione Gaber, oppure su www.giorgiogaber.org e vi troverete un sito (io credo) di amici e fan molto preciso, ricco di testi di tutte le sue canzoni e monologhi divisi per spettacolo e non… ma non fate l’errore (che ho fatto io) di andare su www.gaber.it perché vi troverete il sito di una azienda di Treviso che produce sedie, tavolini e sgabelli in plastica. Non so perché ma l’idea che il nome Gaber, che per me è sinonimo di cosa antica, sana, naturale, magari un pochino demodé ma molto sanguigna e verace, sia associato a uno sgabello in tecnopolimero ed alluminio anodizzato mi ha fatto quantomeno sorridere. (Chissà se lui se n’era accorto!).