☛ Reprofiling. In italiano, «riscadenziamento». Si riferisce alla posizione a cui sono giunti i ministri finanziari Ue riuniti da ieri a Bruxelles nell’ambito del vertice Ecofin. A margine della riunione, il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker ha spiegato che, ferme le condizioni di un piano di vendita di 50 miliardi di asset pubblici entro il 2013 e di un taglio della spesa pubblica, «potremmo discutere lo riscadenziamento» del debito ellenico. Cioè il posticipo del rimborso delle emissioni obbligazionarie già scadute. Come ha sottolineato ironicamente Paul Donovan, capo economista della banca svizzera Ubs, «un riscadenzamento non è una ristrutturazione, e nemmeno un default. Significa soltanto non pagare gli obbligazionisti». Il finanziamento congiunto Ue-Fmi da 110 miliardi di euro non è bastato a rimettere in carreggiata il Paese, e la scorsa settimana l’agenzia Dow Jones ha rivelato, citando fonti governative di Atene, l’esistenza di un piano di aiuti supplementare da 60 miliardi di euro, finora sempre smentito.
☞ Bail-out. Il termine, che significa «salvataggio» (in questo caso mediante un finanziamento a tasso agevolato a un’attività economica a rischio fallimento) è made in Usa, dove è stato utilizzato per la prima volta nell’autunno 2008, per indicare il salvataggio deciso dall’amministrazione Bush a vantaggio delle tre sorelle di Detroit, le case automobilistiche General Motors, Ford e Chrysler. La parola varca l’Atlantico alla fine dell’aprile 2010, quando Jean-Claude Trichet e Dominique Strauss-Kahn vanno a Berlino per discutere una linea di credito congiunta da 110 milioni di euro. In quell’occasione, Trichet dirà «la Grecia è un caso molto speciale». Non sarà così. L’Irlanda piegata dallo scoppio della bolla immobiliare viene salvata lo scorso 30 novembre, con un prestito pari a 85 miliardi di euro a un tasso che in questi giorni è stato definito «da strozzinaggio». L’altroieri, infine, l’Ecofin ha dato il via libera al bailout portoghese, altri 78 miliardi di euro. Se consideriamo anche lo stanziamento del fondo Efsf, 400 miliardi di euro, la cifra complessiva dei «bail-out» sfiora il trilione di euro.
☛ Ristrutturazione. È il vero spettro per i Piigs (☟vedi sotto). Si tratta di una procedura meno costosa del fallimento vero e proprio (con i libri in Tribunale), che consiste nella rinegoziazione dei debiti maturati da un soggetto economico in crisi di liquidità per fare in modo che possa continuare a operare sul mercato. Un anno fa, la Grecia varava il maxi piano da 16 miliardi di euro, circa il 7% del Pil ellenico (tra le misure: tagli agli stipendi pubblici pari al 10%, del 7% per gli statali, aumento Iva dal 19 al 21%, blocco delle pensioni) per fare scendere il deficit dal 12 all’8% del Pil. Oggi, Atene sta portando avanti una privatizzazione di asset pubblici dal valore di 50 miliardi di euro. Di ristrutturazione si è parlato anche in riferimento a Irlanda e Portogallo. Si tratta del famigerato Piano B, riportato in auge dall’Economist lo scorso gennaio, e da alcune banche d’affari Usa: temporanea uscita dall’euro per alcuni Paesi unita a ristrutturazione del debito. Uno scenario che non si è ancora realizzato.
☞ Piigs. Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna. L’antipatico acronimo per indicare i Paesi «periferici» dell’Eurozona, cioè a bassa crescita e ad alto debito, è di matrice anglosassone. Già un paio d’anni prima della nascita dell’euro nelle sale cambi inglesi e americane i trader indicavano questi Paesi dall’elevato debito, deficit e disoccupazione. La «i» irlandese si è aggiunta nel 2009, quando la crescita di Dublino ha segnato un meno 7,5 per cento dopo un triennio a doppia cifra. Se Gideon Rachman sul Financial Times ha definito l’Italia «too big to bail», cioè troppo grande per essere salvata, è la Spagna a preoccupare dopo Grecia e Portogallo. Dopo la riforma che ha accorpato le Cajas, la Banca centrale di Madrid ha stimato in 198 miliardi di euro le potenziali perdite delle banche iberiche derivanti dallo scoppio bolla immobiliare. Secondo l’economista spagnolo Benito Arrunada, intervistato oggi dal quotidiano El Economista, «non è ragionevole ritenere la Spagna membro dell’Ue, con 5 milioni di disoccupati e un tasso di crescita vicino allo zero».
☛ Stress test. Anche in questo caso, l’origine del termine va ricercata negli States. L’indagine lanciata dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa a inizio 2009 prevedeva l’analisi della patrimonializzazione dei 19 maggiori (in termini di asset e prestiti) istituti americani in tre diversi scenari economici a gravità crescente. Il tempestivo responso, necessari 75 miliardi di dollari, rassicurò i mercati. Nel maggio del 2010, i risultati degli stress test su 91 banche europee hanno invece suscitato forti perplessità tra gli operatori (responso: 7 banche sono state bocciate, con Tier 1 sotto il 6%). L’8 aprile 2011, l’Eba, il nuovo organismo di vigilanza comunitaria, ha annunciato, per giugno, nuovi stress test per 90 banche europee (Tier 1 al 5%), i risultati sono attesi a giugno. Anche la Fed, all’inizio del 2011, ha alzato il velo su una nuova ondata di stress test ipotizzando un tasso di disoccupazione all’11 per cento. La Fed, che a fine maggio ha annunciato la fine dei test senza diffondere i risultati, ha dato il suo via libera all’aumento dei dividendi.
☞ Bail-in. Dopo il bail-out (☝vedi sopra), ecco il procedimento inverso. Invece che di soldi pubblici, conversione di asset interni al soggetto da salvare. È l’Europa a coniare questo termine, sentito per la prima volta nel settembre 2010 dopo un report dell’Association for financial markets in Europe (Afme), la lobby bancaria comunitaria. Il procedimento è tanto semplice, quanto efficace in teoria. Una volta arrivata la criticità, come accadde per Lehman Brothers, il caso di studio più utilizzato, il board della banca decide di far scattare la conversione di differenti asset nel patrimonio di base nel tentativo di ricapitalizzarsi. Asset-backed security (bond derivanti da cartolarizzazioni), carta commerciale, promissory note (cambiali), pronti contro termine (repurchase agreement): tutto può essere convertito, compresi i Cocos (☟vedi sotto). In sostanza, anche asset deteriorati o di minore qualità. Secondo Paul Calello, compianto banchiere bostoniano di Credit Suisse che per primo ipotizzò l’uso del bail-in (gennaio 2010), il crac Lehman poteva costare 25 miliardi di dollari, non oltre 150 come in realtà è stato.
☛ Cocos. L’acronimo indica i Contingent convertible capital, emissioni obbligazionarie che hanno la particolarità di essere convertibili in azioni al raggiungimento di una soglia, definita trigger. Promettono rendimenti molto elevati (dal 7,5 al 9,5%), ma in caso il capitale di base della banca scenda sotto le quote stabilite dagli standard di Basilea III (Tier 1 al 7%), il possessore perde lo status di obbligazionista e diventa azionista. Più rischi, meno sicurezza, quindi. I Cocos nascono ufficialmente a fine 2009, ma è a luglio 2010 che entrano nel novero delle parole della crisi. Standard & Poor’s ha calcolato che saranno emessi Cocos per quasi 1.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Il benchmark di riferimento è stato tracciato da Credit Suisse che, a inizio anno, ha emesso 4,6 miliardi di euro in Coco bond. Per ora questi strumenti sono stati criticati duramente dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) e dalla Bank of England: troppi i rischi. Eppure, i Cocos sembrano essere l’unica via per il rifinanziamento tanto necessitato dalle banche.
☞ Gipsi. «This is the Gipsi way, guys». Non si sa bene chi sia stato il primo banchiere a pronunciare queste parole, ma dopo il 5 maggio 2010, giorno del bail-out di Atene, nelle sale trading di mezzo mondo ha iniziato a girare questa favella. Quella che dal Financial Times è stata definita «la via degli zingari dell’euro» prevede la crisi, con conseguente bail-out, di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Per ora, come si ricorda nelle sale operative, è stata rispettata. Maggio 2010, Atene; novembre 2010, Dublino; maggio 2011, Lisbona. La prossima tappa sarà forse il prossimo novembre?
☛ Cds. I Credit default swap, cioè le assicurazioni che proteggono dal fallimento di un asset, non sono propriamente una novità del 2010. Tuttavia, sono entrati nell’immaginario collettivo quando, nei giorni bui del Pireo, tutti i quotidiani economico-finanziari mondiali hanno iniziato a mapparli quotidianamente. Da mero strumento da perversione della matematica finanziaria per evitare brutte sorprese legate agli investimenti, sono diventati il barometro della crisi. Due sono le principali società che curano le statistiche relative: CMAVision e Markit. E ogni giorno analisti e banchieri guardano i valori dei Cds per valutare l’incidenza del rischio-Paese sul proprio portafoglio. Per dirla come Jim Cramer, storico trader statunitense, «non c’è nulla che non si possa coprire con un Cds».
☞ Rating. Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch: ecco le tre regine del giudizio, qualsiasi esso sia. Debiti sovrani, debiti corporate, tutto passa sotto l’occhio delle tre agenzie di rating. Queste sono state le prime entità, ancora prima dei governi, a ratificare la gravità della crisi europea dei debiti sovrani. I costanti downgrade sui Piigs (☝vedi sopra), arrivati ora a mercati aperti, ora a mercati chiusi, rappresentano il paradigma dell’immobilismo comunitario nella gestione della crisi sistemica che affligge l’eurozona. Criticati dai soggetti declassati e dai regolatori, servono a fornire un’idea sulla salute finanziaria. Come ha scritto una volta Bill Gross, numero uno di Pimco, «non ci fossero le agenzie di rating, il mondo non saprebbe quanto è pericoso».