Tra chi proponeva di stare aperti l’1 maggio e chi invece difendeva il “Primo Maggio” lo scontro è sui simboli. E’ ovvio che nel calendario stiamo parlando dello stesso giorno, ma è anche ovvio che non stiamo parlando dello stesso evento. E lo scontro non è solo simbolico, ma anche sulla distinzione tra tempo di riposo e tempo festivo. Sottovalutare questo scontro, pensare che tutto sia solo una questione di accordi o di volontà significa evitare di prendere in carica l’immaginario sociale e la memoria storica più o meno condivisa.
Nel confronto intorno al Primo Maggio entrano in gioco varie questioni, non ultimo il fatto che a lungo per una parte consistente del mondo cattolico la vera festa del lavoro non è stata l’1 maggio, bensì il 15 maggio, anniversario della promulgazione dell’enciclica Rerum Novarum.
In ogni caso a monte dell’attuale icona rappresentata dal concerto di Piazza San Giovanni, il Primo Maggio è stato molte cose. Alternativamente il luogo dello scontro duro di piazza; e dunque del rapporto di forza e quello della affermazione di una legislazione del lavoro e del tutela, prima si essere come in questo secondo dopoguerra il luogo della identità politica di un movimento che celebrava la sua storia. In mezzo si afferma la pratica di una giornata festiva con comizi, cortei, scampagnate. Il primo maggio insomma si canonizza come festa dei lavoratori, più che festa del lavoro, i quali scioperavano in quel giorno, si vestivano a festa e si separavano dai loro antagonisti sociali. Questa festa imposta fuori dal calendario ufficiale, periodica, quindi non legata a circostanze occasionali, costituiva, indipendentemente dalle parole d’ordine specifiche, un momento di riflessione sul presente, un bilancio su un anno di lotte o di lavoro, una proiezione sul futuro. In breve si proponeva come una tappa tra passato e futuro. Non è difficile intravedere che questo tratto è il vero vuoto da molto tempo, da quando cioè il “futuro” non è più un oggetto scontato che viene dopo il presente, e sicuramente sarà meglio.
E’ su questo vuoto che occorre riflettere.
Il 16 settembre 1999, alla soglie del centenario, il quotidiano “La Stampa” propone un’inchiesta sulla contemporaneità de Il quarto Stato in marcia. La tela di Giuseppe Pellizza da Volpedo che compare in spot pubblicitari o in pizzerie napoletane con Totò, Eduardo e Sofia Loren in prima fila, costituisce un’immagine dove costruzione del mito e mercificazione si incontrano e si sovrappongono, e dove, quindi, si perde il tratto originario e identitario evocato in quella scena. In quell’inchiesta, la cui domanda principale è “quali siano i volti del ‘quarto Stato’, ovvero chi siano e da dove vengano gli uomini e le donne che rappresentano povertà e dignità, miseria e voglia di riscatto è interessante a più di dieci anni di distanza riprendere in mano le risposte che danno intervistati.
Luciano Gallino, Giorgio Forattini, Anna Maria Testa, Valter Veltroni, Duccio Trombadori, Sergio Cofferati, Claudio Martelli individuano alcune figure canoniche dei nuovi poveri: i lavoratori extracomunitari, le prostitute africane, i giovani disoccupati. Forattini e Testa aggiungono gli spettatori televisivi, considerati i “veri poveri”, “scherniti dai media. Tutti sono concordi nel sottolineare che l’immagine che emerge dall’opera è ancora di attualità e Luciano Gallino precisa: “Il Quarto Stato va bene anche per il mondo contemporaneo. Se le categorie cambiano e i volti, necessariamente, si modificano, la richiesta di tutele, di garanzie e soprattutto di peso politico è la stessa di allora”. Unica “stecca del coro” è l’economista di impianto liberista Sergio Ricossa, che dice: “Un quadro del genere per l’Italia di oggi, non ha più molto senso. Quelli che vivono male oggi non sono una classe, ma per lo più singoli individui, famiglie segnate dalla malattia, dalla sfortuna, dalla pigrizia. Forse i lavavetri, ma chissà quanto guadagnano in realtà …”
Nessuno mi sembra colga il centro della questione. Nella scena che costituisce quel quadro ciò che conta non è il singolo volto o quale professione sia riconoscibile. Quel quadro individua una condizione comunitaria. Al centro sta una massa ed è quella scenografia che va colta. Laddove per comunità non si intende tanto una quantità quanto la rappresentazione di una forza. Il Primo maggio è prima di tutto l’ostentazione della forza, di chi scende in strada , ma anche di chi si mette in contrasto. Una condizione che si palpita nell’attesa sia di chi va in piazza, sia di chi si colloca ai margini delle piazze a controllare, che tutto non degeneri e pronto a reprimere. Da questo punto di vista la forze del Primo Maggio è nell’immaginario di chi si profila un domani migliore, contrapposto a quello di chi vuole che niente cambi o che cambi il meno possibile.
Ma non è solo mito, è soprattutto rito. Significa che è la modalità di fare, la ripetizione di gesti, la reiterazione di canti, appunto i riti. Riti che vanno inquadrati per il loro valore. Non è vero che un gruppo fa festa insieme, oppure insieme riflette sulle proprie sconfitte, per un fatto istituzionale, bensì per uno costituzionale, ovvero per riaffermare la sua identità. Celebrare quel rito, cantare insieme canzoni note, scandire slogan, ripetere gesti, portare tutti lo stesso gadget diviene il segno della massima solidarietà del gruppo, ossia individua un “riconoscersi”. Il rito non serve a confermare un fine, ma a riprodurre la credenza che è lo strumento che permette al gruppo di costituire un’unità organica. Ora è proprio questa unità organica che è venuta meno da tempo. Più che la contrapposizione produttore/consumatore, ciò che si è dissolta è la dimensione comunitaria.
Una trasformazione che chiama in causa una seconda questione che qui richiamo velocemente : quella dell’oscillazione del Primo Maggio da festa e giorno di non lavoro, oggi più orientata verso il secondo corno dell’alternativa, riprendendo un vecchio conflitto che sta alle origini stesse del moderno mondo del lavoro. È a partire dalla seconda metà del ‘600, infatti, che il lavoro s’impone sul tempo libero nell’organizzazione della vita quotidiana. Per la mentalità razionalista la festa è un’attività e una forma di associazione non motivata dall’utilità e perciò intrinsecamente sovversiva. Non è il riposo festivo, lo svago, ma il lavoro che “santifica”. La dimensione festiva appare come un’utopia organicista in una società che l’individualismo frammenta o minaccia, oppure come il segno fantasmatico della trasgressione. Anche per questo va trasformata in tempo di non lavoro che al più appare derogabile per un mondo dei lavori per il quale il futuro appare un lusso, più che una proiezione liberatoria da un presente insopportabile, in cui il tempo di non lavoro non è libertà ma incubo di una condizione precaria infinita.
* storico