Nel suo discorso del 19 maggio il presidente americano Obama ha dettagliato la strategia della sua amministrazione verso la questione israelo-palestinese. Washington punterebbe alla soluzione dei «due stati separati», e chiederebbe «scambi di territorio» basati «sui confini prima del 1967». Quest’ultima affermazione ha provocato non poche perplessità a Gerusalemme: prima di quell’anno, Israele non occupava ancora le Alture del Golan, territorio dall’importanza tattica fondamentale per la zona, già al centro di pesanti scontri militari nel corso dei conflitti del 1948 e del 1973. È opportuno chiedersi cosa abbia spinto Obama a dichiarazioni così ardite.
Il Golan è un territorio montuoso, in cui le incursioni di forze nemiche sarebbero difficili da controllare per Israele: dipende anche dal fatto che le forze del paese ebraico si troverebbero ad altezza inferiore rispetto a eventuali attacchi stranieri, che giungerebbero dalle montagne più alte. La questione va oltre i discorsi di legittimità sulla presenza dei coloni o sul ritorno dei palestinesi: il vero problema è la Siria, che in questo corridoio storicamente sostiene azioni contro i militari israeliani; e nei conflitti maggiori non ha mai perso occasione di tentare l’occupazione del Golan.
Era lecito aspettarsi che il premier israeliani Netanyahu respingesse il piano. La risposta è arrivata il 20 maggio, il giorno dopo il discorso di Obama, durante un incontro a due nello Studio Ovale alla Casa Bianca. È stato fatto presente che la larghezza di Israele prima del 1967 era di sole «nove miglia», con «confini da guerra, non confini da pace».
La posizione israeliana è netta: in un editoriale sul Wall Street Journal di Dore Gold, ex-ambasciatore all’Onu, si sostiene che «non è mai esistito uno stato palestinese che possa mai aver preteso i confini pre-1967». Il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas avrebbe in progetto a settembre di fare pressioni sulle Nazioni Unite per ottenere lo spostamento della frontiera: per Gold si tratterebbe di una violazione degli accordi di Oslo del 1993, in cui si vietavano azioni unilaterali di questo tipo per spostare i confini.
Obama sapeva molto bene che la proposta di riportare Israele alla situazione del 1967 sarebbe stata respinta. Il momento storico della Siria rende l’idea di Washington ancora più improbabile: con la partita politica di Damasco ancora aperta e imprevedibile, nell’attesa di una reazione iraniana e sotto la pressione saudita, solo pensare di porre la zona del Golan in balia degli umori militari siriani appare come un’assurdità.
Gli obbiettivi di Obama sono altri. Prima di tutto, il messaggio del 1967 non è per i palestinesi, quanto per Netanyahu. Washington vuole porre un freno alla politica estera fin troppo indipendente di Gerusalemme, e vorrebbe tornare ad avere un ruolo più peculiare nello stabilire gli equilibri dell’area. È una posizione tipica dei governi democratici: anziché una pace “indipendente”, puntano ad accordi in cui gli Stati Uniti possano gestire i rapporti politici e di forza. Solo così possiamo interpretare le altre parole di Obama, relative allo «scambio di territori» e all’ «impegno americano per la sicurezza israeliana, che rimane immutato».
Obama ha parlato guardando anche alla situazione generale del quadrante.
Per strano che possa sembrare, la popolarità del presidente americano nei paesi islamici (inclusa anche l’Indonesia) è più bassa rispetto a quella dello George W. Bush dei tempi peggiori, ed è in netto calo nell’ultimo anno. Il discorso del 19 maggio è un tentativo di proporre una nuova “leadership” statunitense, rispetto a paesi che puntano a modelli politici più partecipativi, ma non necessariamente “americani”.
Il successo di questo nuovo approccio di Washington potrà essere valutato solo tra qualche anno: si tratta di un “investimento diplomatico” che è pensato per portare i suoi frutti a ridosso delle elezioni del 2012, come tutte le negoziazioni su Israele. Per ora, sta scontentando un po’ tutti. I palestinesi si sono arrabbiati per alcune parole sulla “smilitarizzazione” del loro stato, e continuano con convinzione nel nuovo corso politico inaugurato dal patto Fatah-Hamas. Da alcuni negli Stati Uniti, Obama è stato definito un “Presidente anti-israeliano”.
Normalmente, le negoziazioni tra Israele e Palestina si svolgono d’estate, tra sorrisi e fotografi, con grandi strette di mano e abbracci, davanti a qualche residenza presidenziale americana. Stupisce che Obama, un presidente così attento all’immagine, abbia preferito un approccio molto meno “estetico” e assai più “pragmatico”: lo stile (ma non il contenuto!) del discorso del 19 maggio ha ricordato più Ronald Reagan, che Bill Clinton. Il messaggio sui confini del Golan non è che un punto di partenza: adesso vedremo se agli annunci si cela un vero impegno politico.