Osama spinge Obama verso il secondo mandato

Osama spinge Obama verso il secondo mandato

Il volto tumefatto di Osama bin Laden, vera o falsa che sia, è il primo manifesto elettorale della lunga campagna di Barack Hussein Obama contro un candidato repubblicano che ancora non c’è. Chuck Todd, corrispondente alla Casa Bianca della rete Nbc, lo ha definito «il risultato più importante del presidente». Ha ragione. Bin Laden è considerato responsabile della morte di oltre diecimila americani: tremila nel crollo delle Twin Towers e settemila nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. La sua uccisione cambia le carte della politica americana e illumina il personaggio Obama con una luce completamente nuova.

Ogni presidente ha bisogno di crearsi una narrativa per risultare vincente. Tre anni fa Obama aveva cercato di costruire la propria intorno alla parola magica change, nel corso di una campagna elettorale emozionante e alla fine trionfale. Ma arrivato alla Casa Bianca, oppresso dalla crisi economica più grave degli ultimi sessant’anni e da due guerre sfibranti e senza sbocco, sembrava aver perso per strada il filo del discorso.

Lo accusavano di essere un presidente opaco, di non avere una visione strategica all’estero, di consentire continui cedimenti all’interno. Ma in politica contano i fatti e la drammatica immagine di un bin Laden tumefatto e annientato è in grado non solo di dare al presidente un’aura vincente, ma anche di costruire una nuova trama per l’intera presidenza.  Nel discorso che Obama ha pronunciato alle 11 di ieri sera ci sono alcuni passaggi che mostrano i lineamenti di questa trama. «Dobbiamo riaffermare che gli Stati Uniti non sono, e mai saranno, in guerra con l’Islam. Ho reso chiaro, come già fece il presidente Bush subito dopo l’11 settembre, che la nostra guerra non è contro l’Islam. Bin Laden non era un leader islamico, ma un massacratore di islamici. […] Perciò la sua fine sarà benvenuta da tutti quelli che credono nella pace e nella dignità».

Ogni parola del discorso di Obama è stata soppesata. Le parole «pace e dignità» richiamano il discorso che Obama pronunciò al Cairo nel novembre scorso, un discorso storico che, secondo molti commentatori, ha ispirato i movimenti di protesta che proprio al Cairo hanno preso avvio e che poi sono dilagati in tutto il mondo arabo. È stato davvero Obama l’ispiratore della Primavera del Cairo? Impossibile dirlo. I sommovimenti della storia sono ardui da prevedere e difficili da spiegare. Ma la comunicazione fa miracoli nel creare metafore credibili. D’altra parte Ronald Reagan è passato alla storia, almeno nell’immaginario collettivo degli elettori americani, come il leader che fece crollare l’impero sovietico, anche se gli storici veri storcono il naso di fronte a questa interpretazione dei fatti.

Nel caso di Obama, è facile associare l’immagine pacifista del suo discorso al Cairo con quella “guerriera” di ieri sera, quando ha detto sinteticamente: «Giustizia è fatta», rivolgendosi direttamente alla pancia di tutti i suoi concittadini, ricompattando per un istante i progressisti più radicali e i repubblicani dei Tea Party. Le due immagini si sposano perfettamente. Il presidente che ha ispirato il movimento democratico del mondo arabo è lo stesso che ha dato l’ordine di uccidere bin Laden.

Fino a ieri, se ci fosse stato un attentato terroristico in terra americana, gli avversari di Obama avrebbero detto che era colpa di un presidente debole che non era in grado di difendere il paese. Se accadesse ora, sarà per la reazione di un nemico ferito a morte e il paese si stringerà attorno al suo presidente.
Obama aveva promesso che avrebbe posto fine alle due guerra iniziate da George Bush e a luglio, proprio quando la campagna elettorale comincerà a entrare nel vivo, ritirerà dall’Afghanistan i primi 100 mila uomini. Fino a ieri sembrava un gesto di debolezza, ora apparirà come il segno di una strategia vincente.

È facile prevedere che il prossimo 11 settembre, in occasione del decimo anniversario dell’attentato alle due torri, Obama vorrà avere intorno a sé tutti i presidenti viventi, come è tradizione nei momenti cruciali della vita del paese. E in prima fila ci sarà certamente George W. Bush. Come ha fatto ieri sera, Obama si mostrerà al di sopra delle parti, smusserà i contrasti e dirà di essere pienamente d’accordo con i discorsi che il suo predecessore fece «subito dopo» quell’attentato (come ha specificato ieri), quando l’ex presidente appariva ancora moderato e non aveva ancora scelto la linea estremista dei neoconservatori. In questo modo Obama riuscirà a far breccia tra i repubblicani moderati. D’altra parte ha dimostrato di saper porre rimedio ai guai creati dal vecchio presidente. Quel bin Laden che Bush si fece sfuggire a Tora Bora oggi è morto, Al Qaeda è alle corde, le due guerre vanno meglio anche grazie a uno dei migliori uomini di Bush, quel generale Petraeus che ha dato una svolta alle due guerre e che nei giorni scorsi è stato nominato ai vertici della Cia, con una mossa da molti giudicata un colpo di genio.

Petraeus non è solo l’uomo che potrebbe rifondare il più importante ma inefficiente dei servizi segreti americani. È anche l’unico possibile candidato repubblicano che potrebbe battere Obama alle elezioni del 2012. Nominando Petraeus ai vertici della Cia, il presidente ha eliminato il più pericoloso dei suoi possibili avversari. Almeno fino al 2016, ma allora se ne occuperà il prossimo candidato democratico.

Fino a ieri il pragmatismo di Obama era sotto accusa: i rapporti incrinati con il Pakistan e l’Arabia Saudita, storici alleati, erano il segno di una debolezza strategica. Adesso tutto cambia. Nessuno potrà mai dire che un presidente che ha moltiplicato le azioni militari all’interno del Pakistan e che alla fine ha lanciato un’azione per uccidere Osama bin Laden senza avvertire il governo di Islamabad sia un presidente debole. Ci sono avvenimenti che sono in grado di forgiare l’immagine di un presidente e di cambiarne l’immagine per sempre. L’uccisione del capo di Al Qaeda è uno di questi avvenimenti.  

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