NEW YORK CITY – Poteva diventare la più grande class action della storia americana e, invece, dopo la decisione della Corte Suprema, arrivata come una doccia gelata nella tarda mattinata, rischia di diventare il precedente in grado di bloccare altre cause contro colossi come quello del tabacco. Con una decisione unanime, la Corte Suprema, ribaltando la decisione di una Corte d’Appello, ha dichiarato inammissibile la richiesta di una class action contro il gigante della distribuzione Wal-Mart, accusato di atti di discriminazione sessuale nei confronti, ovviamente, delle impiegate. Sotto accusa la politica della compagnia di riconoscere stipendi inferiori alle donne in molti centri e anche di ostacolare i miglioramenti di posizione delle impiegate a vantaggio dei colleghi maschi.
Per capire l’importanza della decisione della Corte Suprema, va considerato che una risoluzione positiva avrebbe consentito a più di un milione e mezzo di impiegati di Wal-Mart di unirsi in una causa che era già annunciata come un evento e che faceva tremare altri grossi nomi della distribuzione, egualmente coinvolti in processi miliardari. Proprio qualche giorno fa, la catena dell’elettronica Best Buy, ad esempio, aveva trovato un accordo proprio in una class action in cui era coinvolta, accettando di pagare circa 10 milioni di spese legali, 200mila dollari a testa ai dipendenti che avevano fatto causa e prendendo un impegno, dettagliatamente chiarito attraverso azioni precise, di migliorare la propria politica di integrazione verso gli afro americani e i latinos. La catena Best Buy era stata accusata di favorire una politica di discriminazione rendendosi responsabile, dunque, di una doppia mancanza: verso le minoranze etniche e verso le donne (le più colpite dalla discriminazione).
Quella delle class action è una “tradizione” radicata nella storia americana, addirittura celebrata dal cinema in più di un’occasione, come nel film Erin Brockovich, con Julia Roberts. Le attese, dunque, soprattutto dopo la decisione della Nona Corte d’Appello che ne riconosceva l’ammissibilità, erano, in maggioranza a favore di una decisione positiva della Corte Suprema. Che, invece, non è arrivata. La motivazione, tuttavia, sta proprio nella portata “gigantesca” dell’azione legale che secondo i giudici non avrebbe garantito il rispetto di un elemento fondamentale alla base delle “class action”, vale a dire una certa uniformità delle accuse in grado di ottenere una sentenza atta a rispondere in maniera altrettanto uniforme.
In definitiva, i giudici hanno obiettato che la complessità delle situazioni dei dipendenti non garantiva quell’omogeneità richiesta da una class action. Ciò significa, d’altro canto, che i giudici non hanno dato alcun giudizio di merito relativamente alle accuse di discriminazione sessuale, attestando semplicemente che le cause legali vanno condotte in maniera singola e non rientrano nei principi di un’azione legale comune.
Per evitare questo epilogo, in qualche modo temuto, i querelanti avevano anche portato, a loro sostegno, come rivela il New York Times, la testimonianza di William T. Bielby, sociologo, il quale aveva affermato che erano state raccolte “evidenze scientifiche circa le discriminazioni di genere, gli stereotipi e la struttura e le dinamiche di disuguaglianza di genere messe in atto nella compagnia”. Il giudice Anthony Scalia, tuttavia, che ha scritto la sentenza a nome dell’intera Corte, ha obiettato che la testimonianza non offriva una prova di un comportamento discriminatorio messo in atto come politica della compagnia e quindi “univoco”.
A giocare a vantaggio di Wal-Mart sono stati proprio i rigidi regolamenti interni che proibiscono in maniera categorica ogni forma di discriminazione, attuata su qualsiasi base. Dunque, comportamenti “locali”, sebbene diffusi (Wal-Mart ha una presenza impressionante su tutto il territorio americano con quasi 3500 punti vendita), non costituiscono una prova di “politica generalizzata” dell’azienda.
Le preoccupazioni ora riguardano il vantaggio che altre corporazioni, coinvolte in class action, potrebbero trarre dalla decisione della Corte Suprema ottenendo “vittorie” inaspettate sui querelanti, magari dopo anni di dibattito. La class action di Wal Mart, vale la pena ricordarlo, aveva impiegato quasi un decennio per arrivare alla Corte Suprema.