Con quest’articolo inizia la collaborazione con Linkiesta Peppino Caldarola.
Due giorni fa quando si è scontrato in aula con Fabrizio Cicchitto sembrava ritornato il Fini battagliero dell’ultimo anno ma quando il ringhioso capogruppo del Pdl, a fine seduta, gli ha stretto la mano si è capito che perfino l’abito del più risoluto avversario del Cavaliere ormai gli sta largo. Vale per lui la frase lapidaria che Thomas Fowler, l’anziano protagonista del romanzo di Graham Green, Un americano tranquillo, rivolge al suo ambiguo amico, l’idealista incendiario Alden Pyle: “Non ho mai conosciuto un uomo che aveva motivi migliori per tutti i guai che ha causato”.
Gianfranco Fini alla destra e al berlusconismo di guai ne ha causati tanti. Questo “italiano tranquillo” nasconde dentro di sé un furore iconoclasta che forse deriva dalle antiche contraddizioni familiari con quel nonno comunista a fianco del padre fervente repubblichino. Arrivato come Veltroni alla politica dal cinema, a lui avevano impedito a Bologna di vedere Berretti verdi con John Wayne mentre all’ex leader dei democrats avevano propinato dosi massicce di Kubrick, Gianfranco Fini si era fin da ragazzo instradato in una carriera sicura. Due vecchi lo avevano preso in custodia, ispirandolo e forse costringendolo ai passi decisivi. Giorgio Almirante che lo aveva imposto ai vertici del Msi come prova vivente dell’esistenza del prototipo del “camerata in doppio petto” lontano dalle nostalgie autobiografiche degli sconfitti di una volta, e Pinuccio Tatarella, il fantasioso ministro con le macchie di sugo sulla giacca, che lo aveva spinto a sciogliere l’Msi per fondare Alleanza nazionale. Ma né Almirante né Tatarella avevano compiuto il miracolo di far diventare candido l’anatroccolo nero. La trasformazione cromatica e mediatica l’ha compiuta Silvio Berlusconi scegliendolo come partner privilegiato di governo e affiancandolo a Pierferdinando Casini nella gara infinita per la propria successione.
Alla sua destra l’allievo di Almirante in rapida ascesa fa ingoiare molti bocconi amari come quando a Yad Vashem, nell’atmosfera raccolta del museo della Shoa, si fa ritrarre con la kippa in testa e pronuncia frasi definitive sul fascismo. L’opinione pubblica lo scopre e lo premia con sondaggi che clamorosamente lo mettono in testa a tutte le classifiche. Nel suo partito si dilaniano i colonnelli rampanti, entrano e escono a giorni alterni la Mussolini e la Santanchè, perfino il tosto Tremonti deve fare i conti con la sua durezza nel regolare i conti nella Casa della Libertà. Fini sembra incontenibile. Quando Berlusconi sale sul predellino imponendo lo scioglimento e l’annessione dei partiti alleati lui dapprima lo sfotte poi, a differenza di Casini che va per la sua strada, lo affianca liquidando la sua creatura che tutti danno ormai ai minimi storici elettorali. È l’ultimo miglio che lo separa dall’incoronazione. Fini ci crede e gli dà dentro cominciando a martellare l’antico alleato. Vede la vetta ma non si accorge del dirupo.
Si arriva così all’ultimo anno con la sfida aperta fra i due capi del centro-destra, quel “che fai, mi cacci?” che sembra l’inizio di una nuova storia e soprattutto l’accelerazione di una carriera. La rottura con Berlusconi lancia Fini nell’Olimpo della politica. È lui l’uomo nuovo, quello che può spingere al ritiro il vecchio tycoon e dimostrare l’irresolutezza delle vecchie opposizioni di sinistra. Attorno a lui si fa il vuoto dei colonnelli, in gran parte rimasti con Berlusconi, ma la guardia regia dei suoi sostenitori è piena di giovanotti rampanti, da Bocchino a Urso e a Ronchi, mentre sulla sua onda acquistano la ribalta giovani intellettuali di destra che piacciono alla sinistra, da Alessandro Campi a Filippo Rossi a Sofia Ventura la cui intemerata contro le veline di governo sembra aver provocato la reazione di Veronica Lario contro il dissoluto consorte.
Tuttavia Berlusconi non si fa mettere nell’angolo e reagisce con la clava delle rivelazioni giornalistiche sulla casa di Montecarlo e il rapace cognato del presidente della Camera. La conta parlamentare premia il Cavaliere, emerge nella società una nuova sinistra movimentista, il popolo di destra si divide e spesso si allontana dalla politica. Un anno dopo è tutto finito. Berlusconi ha pagato cara la scissione dei seguaci del presidente della Camera e iscriverà questo inizio d’estate del 2011 fra le date infauste della sua vita ma Fini, l’uomo che ha scosso l’albero, sembra infilato definitivamente nel cono d’ombra. Il suo partitino viaggia intorno al 3%, Urso e Ronchi se ne vogliono andare, gli intellettuali lo hanno lasciato, Bocchino continua a imperversare mentre il presidente della Camera guarda con nostalgia preventiva quell’aula che presiede consapevole che se non lo riporterà in Parlamento il Terzo Polo alle prossime elezioni, se dovrà contare sulle proprie forze, gli toccherà star fuori da tutto.
L’elenco dei suoi errori riempie i notiziari dei cronisti politici. Molti tornano a scoprire in lui quel mix di irresolutezza e di improvvisi furori che lo hanno trasformato in una scheggia impazzita della politica italiana. Senza più padrini ha fatto tutto da solo e si è fatto male. Il merito di aver infranto l’unanimismo dell’universo berlusconiano si accompagna alla colpa di aver diviso la sua gente. I “motivi migliori per tutti i guai che ha combinato” lo consegnano alla storia politica ma lo hanno cancellato dal futuro del paese. Forse quando nascerà una destra non berlusconiana si ricorderanno di lui. Chissa allora dove sarà.