Regna il caos in Yemen. Nella confusione, il susseguirsi di voci e notizie rischia di distorcere un quadro già complicato e avvantaggiare lo spettro del terrorismo. Il presidente Alì Abdullah Saleh, colpito da un razzo granata nel suo palazzo lo scorso 3 giugno, è ora ricoverato in un ospedale di Riad, in Arabia Saudita. La sua partenza dal paese è stata salutata con gioia dall’opposizione e dagli attivisti della primavera yemenita, ancora accampati in piazza Tagheer, a Sana’a.
Secondo alcuni, la cura all’estero sarebbe un mezzo per ottenere un’uscita di scena dignitosa, in un paese che ormai è scivolato nella guerra civile. Le lotte tra tribù, la rivolta dei giovani e la repressione del governo hanno già portato a 300 morti negli ultimi mesi. Ma sembra che Saleh non abbia nessuna intenzione di andarsene. Stando alla Bbc, il suo ritorno sarebbe «questione di giorni». Per Al Arabyia il ricovero può durare «qualche settimana». Stati Uniti e Inghilterra sperano che il presidente, anche grazie alla mediazione saudita, scelga di firmare per le sue dimissioni, accettando un abbandono del potere con garanzia sull’incolumità sua e dei suoi patrimoni. E che, quindi, non ritorni mai più. Il tutto a condizioni migliori rispetto a quelle avute da Ben Alì o Mubarak, e, con tutta probabilità, anche da Gheddafi.
Nel frattempo, al vertice dello Yemen ci sarebbe Abdrabuh Mansur Hadi, vice-presidente. I partiti dell’opposizione sono d’accordo per il trasferimento di poteri, mentre sostengono la necessità di aprire una fase di transizione. Ma non è semplice: il figlio di Saleh, Ahmed, a capo delle Guardie Repubblicane, aspira alla successione del padre, già da prima che incominciasse la rivolta. Accanto a lui, i nipoti di Saleh, ognuno a capo dei servizi di sicurezza, che contrastano il passaggio al vertice. Una guerra all’ultimo sangue: anche tre uomini dello sceicco Sadiq al Ahmar, che aveva appoggiato la rivolta, sarebbero stati uccisi da cecchini del Governo.
Uno stato di confusione che sembra avvantaggiare Al Qaeda e preoccupa Stati Uniti e Arabia Saudita. Per loro non è chiaro chi sarà il prossimo referente politico dello Yemen. Oltre a questioni di stabilità, la necessità è che il prossimo leader del paese si opponga al terrorismo islamico. Magari in modo più cristallino rispetto a quanto fatto finora da Saleh.
La minaccia qaedista è ritenuta trascurabile da parte dell’opposizione yemenita, che forse la considera un grimaldello nelle mani delle potenze occidentali per intervenire nelle questioni interne yemenite. Eppure Al Qaeda, nei giorni scorsi, avrebbe preso il controllo di Zinjubar, capitale della provincia di Abyan, nel sud dello Yemen. Con 300 uomini avrebbe piegato la resistenza delle forze di sicurezza, provocando cinque morti.
Secondo Farian Sabahi, esperta del mondo islamico e autrice di Storia dello Yemen, la minaccia di Al Qaeda nello Yemen «è reale. E coinvolge non solo gli occidentali, ma anche i sauditi, da sempre nel loro mirino». Lo Yemen sarebbe, aggiunge Sabahi, un terreno fertile: «la causa principale è la povertà. Il reddito medio pro-capite annuo è di circa mille dollari. Questo rende lo Yemen il più povero tra i paesi arabi». Se non bastasse, «un terzo della popolazione soffre la fame cronica. Il 42% vive al di sotto della soglia di povertà, con meno di 2 dollari al giorno».
Le premesse, dunque, sono preoccupanti. Non c’è solo il problema di un quadro politico tumultuoso: la questione è strutturale. E il rischio di una deriva terroristica è concreto. Come se ne esce? Secondo la studiosa, «la comunità internazionale dovrebbe intervenire, anche nel proprio interesse, a chiedere al futuro governo yemenita trasparenza economica come conditio sine qua non». La corruzione, ricorda, è stato il primo problema dell’amministrazione Saleh, «ciò che ha impedito che gli aiuti occidentali e sauditi contribuissero a una reale crescita economica»., spiega. Nel frattempo, a Sana’a, l’unica cosa a regnare è l’incertezza.