Il leit-motiv è più o meno quello. Da quasi vent’anni Silvio Berlusconi parla ossessivamente delle stesse cose: dell’incubo comunista, delle toghe rosse, della rivoluzione liberale che ha promesso e mai realizzato. Il tutto condito da battute, barzellette, e comizi con quelle domandine che alla lunga hanno stufato persino i suoi sostenitori più accesi. Gli elettori non ne hanno potuto più e ultimamente glielo hanno detto chiaramente: ha perso in malo modo le amministrative, subendo l’oltraggio di Milano e lo schiaffo di Napoli, e poi col referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento.
Adesso Umberto Bossi prova più o meno a recitare lo stesso copione. Alla vigilia del raduno di Pontida, in programma domani, il leader leghista parla come se non fosse stato l’alleato più fedele del Cavaliere negli ultimi dieci anni. Oseremmo dire l’unico rimastogli fedele, ormai, dopo essere stato il primo ad aver tradito, nell’ormai lontanissimo 1994. Anche la Lega alle ultime amministrative è stata sconfitta. Ha subito un brusco ridimensionamento al Nord. Insomma l’onda lunga, per dirla alla Craxi, si è bella che fermata. Checché ne dica il ministro per le Riforme, la sberla al referendum l’hanno presa anche loro, nonostante l’imbarazzante tentativo di Maroni di correre sul carro dei vincitori a poche ore dalla chiusura delle urne. A quorum ormai virtualmente raggiunto.
Eppure nessuno ha pregato la Lega di appoggiare incondizionatamente questo governo né tanto meno di non dare battaglia – loro, che possono vantare di essere un partito realmente popolare – sul referendum. Insomma, hanno fatto una battaglia politica e la hanno perduta. E adesso come pensa di rimediare l’establishment leghista? Esattamente come fa Silvio Berlusconi. Ripescando dal cilindro il solito copione, trito e ritrito. Non può più agitare lo spettro del federalismo, il Senatùr, perché il Parlamento glielo ha approvato. E allora per tenere caldo il suo popolo, torna alla vecchia strada: la Lega di lotta, dimenticando che è il partito che è stato più al governo negli ultimi dieci anni. Bossi grida che di ministeri a Roma non ne vogliono, almeno non tutti. Che lui, Calderoli e Tremonti devono governare, ma dal Nord, da Monza. E anche se annuncia che il trasferimento di tre dicasteri potrebbe non bastare, di fatto prepara il terreno per una crisi di governo che gli garantirebbe la tenuta dei suoi voti alle prossime elezioni. Chi potrebbe negarglielo visto che lui si è sacrificato in nome dei ministeri in Padania?
Oggi si è limitato ad anticiparlo in conferenza stampa, domani lo farà come solo lui sa fare davanti al prato verde. Vedremo come reagirà il suo popolo. Se applaudirà, si esalterà e lo seguirà incondizionatamente, come ha fatto in occasione della pagliacciata sulla guerra a termine in Libia. E in questo caso avrà avuto ancora una volta ragione lui. Oppure se, come hanno dimostrato i berlusconiani, andranno via sconsolati, scrollando il capo, o facendo in qualche modo capire al Capo che oggi serve altro. La risposta non è scontata. Bossi conosce il suo popolo come pochi. In un altro Paese, magari, il senatùr avrebbe avuto una laurea in sociologia honoris causa. Capì con largo anticipo cosa sarebbe accaduto dopo il crollo di Berlino, tra i sorrisini dei soliti intellettuali ed editorialisti. Domani ci riprova. E annuncia sorprese.