La lobby del petrolio alza la voce in Parlamento. La scorsa settimana la commissione industria del Senato ha elaborato un disegno di legge per rivedere la normativa sulla ricerca e la coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi. Ma il risultato, a detta delle principali aziende petrolifere che operano in Italia, rischia di avere conseguenze devastanti per tutto il settore.
A creare allarme è soprattutto il rincaro dei canoni annui per i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazioni. L’articolo 3 del ddl aumenta i parametri di quasi 300 volte. Ogni permesso, che oggi costa 7 euro/Kmq, raggiungerebbe i 2.000 euro/Kmq. Da 54 a 16mila euro per ogni concessione. Un provvedimento che, di fatto, renderebbe economicamente insostenibili quasi tutti i progetti di esplorazione e produzione. Le nuove tariffe, peraltro, sarebbero introdotte retroattivamente, «a decorrere dal gennaio 2010». Al centro delle proteste delle aziende petrolifere, poi, l’innalzamento dei limiti delle emissioni di idrogeno solforato. Con una ridefinizione dei valori minimi e massimi – prevista dall’articolo 2 – considerata ingiustificatamente punitiva.
Assomineraria – l’associazione di Confindustria che rappresenta le principali società del settore – e alcuni dei soggetti interessati hanno già sguinzagliato i propri lobbisti. Il messaggio da consegnare al mondo della politica è semplice: questa legge segnerà la fine del comparto petrolifero in Italia. Con quali conseguenze? Per gli ambientalisti sarebbe un successo. Per le casse pubbliche un po’ meno. Oggi le royalties – le aliquote di prodotto della coltivazione – sono un’importante fonte di guadagno. Non tanto per lo Stato, quanto per gli enti locali coinvolti. Nel 2010 i proventi delle royalties applicate alle produzioni di idrocarburi hanno sfiorato i 190 milioni di euro. Versamenti effettuati per la maggior parte da Eni, il maggiore esponente del settore (129.530.000 euro circa). E a seguire da Shell (poco meno di 50 milioni di euro) ed Edison (3.200.000 euro). Di questi, più di 100 milioni di euro sono finiti nelle casse di Comuni e Regioni. Mentre 38.500.000 euro hanno finanziato il fondo per la riduzione del prezzo dei carburanti.
I rappresentanti delle 59 società titolari di permessi e concessioni sono al lavoro. Il tempo stringe, il presidente della Commissione industria Cesare Cursi (Pdl) ha fissato al 30 giugno la scadenza per la presentazione di emendamenti al testo. Fonti vicine a Palazzo Madama raccontano che il direttore generale di Assomineraria Andrea Ketoff sarebbe vicino all’obiettivo. Almeno due componenti della commissione avrebbero confermato la propria disponibilità ad aprire un confronto per modificare il ddl: la senatrice siciliana del Pdl Simona Vicari – prima firmataria di uno dei quattro documenti che hanno dato vita al testo unico – e lo stesso Cursi. Un ruolo fondamentale nella vicenda spetterà al sottosegretario allo Sviluppo Economico Stefano Saglia, da tempo vicino alle posizioni delle aziende del settore.
Tra gli argomenti per «convincere» i parlamentari, gli emissari delle società petrolifere puntano molto sulla ricaduta occupazionale della nuova normativa. La scomparsa del settore comporterebbe la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Circa 65mila, secondo uno studio presentato alcuni mesi fa in Senato da Assomineraria. Senza contare la diminuzione delle fonti energetiche, specialmente dopo la bocciatura referendaria del nucleare. Oggi il comparto offre un importante aiuto al contenimento della bolletta energetica del Paese. «Nel 2009 – si legge in un dossier trasmesso ai senatori – il settore ha rappresentato il 7 per cento della domanda di energia e il 9 per cento del fabbisogno di idrocarburi. Pari a un valore di circa 3,3 miliardi di euro sui mercati internazionali di approvvigionamento».