Che ne faremo di tutte queste protesi umane – mani, braccia, piedi, mozziconi di sè – che mezza Italia (politica) sta generosamente offrendo sull’altare dell’integrità morale di Gianni Letta, uomo tanto venerato quanto potente nella sua assoluta e riconosciuta discrezione? La sola ipotesi ch’egli possa essere stato sfiorato dal dubbio di comportamenti men che cristallini nella vicenda Bisignani, ha generato un’autentica sollevazione degli affetti, un idem sentire, come avrebbe detto una volta l’Umberto da Giussano.
Tutto ciò risulta ancor più “straordinario”, se calato nel Paese delle manette, in quel guazzabuglio fangoso di accuse, mezze intercettazioni, rancori, polpette avvelenate, servizietti deviati, giustizialisti in servizio permanente effettivo, che compongono l’affresco più riuscito ed evidente di un’Italia senza respiro civile. Possibile che in questa gioiosa nazione, che non risparmierebbe a chicchessia la gioia di qualche giorno di galera, l’unico a esserne felicemente preservato è proprio lui, Gianni Letta?
Una prima lettura, piccola ma sincera, ce la offre proprio Enrico Mentana, che ha usato il “suo” telegiornale per respingere al mittente ogni maldicenza, utilizzando le sue personalissime vicende professionali: «Non è pensabile per chi lo conosce – ha iniziato così -; quando mi ritrovai ad aver perso il lavoro in una situazione di mercato molto difficile, fu lui che si adoperò perché questa situazione potesse avere fine». Secondo Mentana, dunque, ma probabilmente solo per lui, «anche questa è una dimostrazione di un uomo che crede nei valori».
Raccontato dal direttore de La7, questo è il Letta meno conosciuto al grande pubblico, ma anche quello che, instancabilmente, non si è mai negato alle esigenze di interi eserciti di questuanti, che vedevano in lui la soluzione a ogni problema. Noi giornalisti, e naturalmente anche chi vi scrive, spesso ricorrevamo alla sua bonomia quando magari, verso sera, il quadro politico restava ancora nebuloso e una sua parola poteva restringere le opzioni.
Era particolarmente facile raggiungerlo telefonicamente soprattutto nei periodi in cui Berlusconi si trovava all’opposizione, perché Gianni Letta amava richiudersi nel suo vecchio ufficio Fininvest. Intorno alle sei e mezza-sette della sera, uscita la segretaria, bastava comporre il numero perché rispondesse direttamente lui.
Se Gianni Letta si è adoperato perché Mentana avesse ancora uno straccio di posto, non è avventato pensare che abbia sistemato, o comunque aiutato, molti, moltissimi colleghi, e come lo faceva per i giornalisti, era del tutto immaginabile che rivolgesse gli stessi amorevoli sforzi in direzione di tante altre categorie professionali. Anche il vostro cronista aveva la netta sensazione che se avesse chiesto un certo tipo di favore, deontologicamente poco nobile, il suo autorevole interlocutore, pur avendo scarsa consonanza politica, non si sarebbe tirato indietro, magari risolvendogli la faccenda.
Capirete che questa prima, larga, “tessitura”, nel momento della difficoltà torna indietro sotto forme diverse, ma tutte riconducibili all’idea che un uomo che fa così del bene, e che soprattutto da potente è così raggiungibile anche dalla bassa forza, non può essere certo assimilato a qualche orrendo faccendiere. Un collettivo “non ci posso credere” che Gianni Letta si è certamente meritato negli anni, e che forse solo la storia e gli storici potranno dire quanto frutto di genuinità e quanto di calcolo. Resta il fatto che notoriamente i pezzi giornalistici su di lui si contano, forse, sulle dita di due mani. Ne dovevano essere consapevoli i giovanotti del Fatto Quotidiano, quando scelsero per il primo numero della loro storia il titolone «Letta indagato».
Ovviamente c’è un secondo Letta meno zuccheroso del primo, e probabilmente ce n’è anche un terzo e un quarto di cui poco o nulla si sa. Ma certo, la sua storia professionale più corposa, prima che intervenisse la politica attiva, è stata quella che ne ha fatto il lobbista più autorevole, rispettato e influente del Silvio Berlusconi imprenditore. Insomma, un uomo che ha lavorato in profondità sui Palazzi romani quando le questioni spinose della televisione commerciale cominciavano a intrecciarsi pesantemente con la politica.
Poco indagato è stato il rapporto umano che ha legato due persone così diverse. L’uno riservatissimo, l’altro quel che sappiamo, eppure un corpo e un’anima sola nello sviluppo di un’avventura che ha messo insieme impresa, affari e politica. Se è piuttosto chiaro cosa pensa Berlusconi di Letta, avendone sfruttato per una vita capacità e risorse, rimane più misterioso cos’ha in testa Letta del Cavaliere. Mai una parola gli è uscita sull’argomento, ma soprattutto mai un sentimento è emerso che ne definisse i contorni. Il cemento di un sodalizio così granitico comprende anche un affetto, un bene sincero, umanità reciproche, oppure i ruoli non si sono mai confusi? Se così fosse, avremmo di fronte due automi consapevoli che consapevolmente hanno marciato insieme.
Oggi siamo all’ultimo Letta e, per dirla con l’affetto di chi ne ha apprezzato la compostezza, non è un Letta bellissimo. E non è una questione di carte giudiziarie, di procure o cose del genere. No. Qui si ragiona dei rapporti che ognuno di noi decide di tenere, di tessere, o anche di interrompere. Si vuole capire se un buon cittadino-politico debba distinguere il grano dal loglio, se ne abbia il dovere prima ancora che il diritto. Si tratta di capire se tutto ciò che non è penalmente rilevante (nella vicenda Bisignani), abbia però rilevanza sull’etica pubblica. Si vuole sapere se decidere con certi soggetti degli assetti di un Paese sia lecito moralmente e moralmente trasferibile sui cittadini-elettori.
Gianni Letta dice spesso che le persone vanno da lui e lui ascolta, ascolta soltanto. Loro magari millantano e lui ascolta, ascolta soltanto. Non sarebbe male se ogni tanto dicesse alla sua segretaria: non ci sono per nessuno.