È passata quasi nel silenzio generale (assordante nel caso de L’Osservatore Romano) la recentissima approvazione alla Camera della sofferta legge sul “testamento biologico” confermata da una maggioranza sicuramente trasversale. Ed è stata forse l’ultimo atto politico di una convergenza “cattolica” costruita nei lunghi anni della guida di Camillo Ruini alla Conferenza Episcopale. Ovvero, dalla fine affrettata e ingloriosa della Dc, l’aggregazione dei cattolici (e dei laici di “buona volontà”) sparsi in tutti i partiti intorno ad una solida unità sui valori “non negoziabili” (vita, famiglia e libertà educativa).
Il modello dei “cento fiori”, per usare un’immagine maoista, ha funzionato nel raccogliere i credenti impegnati in politica nella pluralità dei partiti, e facendo scoprire sul terreno dei valori figure diverse da quelle provenienti dai serbatoi tradizionali del cattolicesimo organizzato. Oltre infatti agli esponenti “formati” nelle associazioni e nei movimenti, è emersa una realtà composita di “semplici fedeli” che in politica si sono fatti sentire. È il caso ad esempio dei ministri Sacconi o Gelmini, dello stesso Alfano e di numerosi parlamentari (non esclusi molti leghisti) condotti all’impegno pubblico più per vocazione personale che per espressione ecclesiale. Insomma una propaggine non organizzata che tuttavia proveniva dal retroterra indistinto di quella “Chiesa di popolo” che costituisce, almeno in Europa, la rilevante “eccezione italiana”.
Nel centro-destra ha trovato spazio per emergere. E tuttavia, con l’accelerato declino del berlusconismo, manifesta un malessere almeno pari a quello che tormenta da più tempo quei cattolici più organizzati che hanno stabile dimora nel centro-sinistra. E pure il Terzo Polo (o meglio l’UDC), che accoglie transfughi dagli altri schieramenti, appare uno strumento residuale, con Casini più indirizzato ormai alla corsa personale al Quirinale, magari in serrata competizione con un riemergente Romano Prodi.
Che il Paese nel suo complesso senta comunque l’esigenza di “voltare pagina” è ormai accertato; che gli attuali “contenitori” politici si rivelino (anche per la selezione miope dei gruppi dirigenti, più cooptati che eletti) del tutto inadeguati è sensazione altrettanto diffusa; e che si avverta pesante l’assenza di strumenti civili, dove i credenti si sentano serenamente “a casa propria”, è così evidente, tanto da suscitare da qualche anno l’appello di Papa Benedetto per una nuova generazione di laici cristiani impegnati nell’agone politico per il bene comune.
Si è intensificato in questi mesi il fervore di convegni e di incontri riservati con la prospettiva di lanciare poi documenti pubblici con la forza di veri e propri “manifesti”. E tuttavia, pur con la rete dei movimenti e l’attiva partecipazione dei capi delle associazioni, è difficile intravedere uno sbocco unitario, al di là della palese velleità di immaginare un nuovo ambito pubblico cristianamente ispirato.
D’altronde sono gli stessi vertici ecclesiastici a promuovere e a sollecitare, nella realistica consapevolezza che in un Paese lacerato e smarrito è rimasta ormai la Chiesa come unica “agenzia sociale” davvero unitaria. E lo si è colto anche nelle celebrazioni per i 150 anni del Paese, con il paradosso che era la Chiesa a sussumere i valori nazionali, quella stessa Chiesa contro la quale storicamente il Risorgimento unitario aveva proprio combattuto.
Eppure anche tra le sottane paonazze il quadro non è tranquillo, come dimostrano gli interventi sulla sanità (vedi il salvataggio improvviso del San Raffaele di don Verzè) o la sorda lotta di potere intorno all’Istituto Toniolo, cassaforte dell’Università Cattolica e di altre istituzioni finora autonome dalla Santa Sede. In ogni caso, al di là della facciata, la degenerazione politica e culturale del bipolarismo (scaduto a livello addirittura “militare”) è penetrata in profondità nel vissuto cristiano, fratturando spesso le comunità, gli oratori, le stesse parrocchie, con un di più di malanimo diffuso e di scarsissimo e leale scambio di culture e di esperienze.
Tuttavia uscire dai propri comodi “recinti” culturali e politici è sempre più una necessità per l’arcipelago cattolico che sente viva la responsabilità civile, magari con il timido orgoglio di “avere – come riconosce da tempo Giuliano Amato – una marcia in più”. È recente l’incontro delle associazioni più coinvolte nell’economia sociale (dalla Cisl alle Acli alle cooperative e alla stessa Compagnia delle Opere) che insieme individuano l’uscita dal declino attraverso l’investimento più largo nella ricchezza della società, secondo quel principio di “sussidiarietà” che ritira il peso del pubblico alla dimensione regolatrice. Ma è una via che soffre il confronto con lo statalismo radicato di antica matrice dossettiana e dei suoi epigoni (come Rosi Bindi).
D’altra parte nella sfida alla indecifrabile modernità non mancano smagliature e sbandamenti peraltro non isolati. La romantica deriva su “sorella acqua” nell’ultimo referendum ne è una prova. Si è scelto infatti solo una parte “strumentale” della Dottrina sociale della Chiesa (al n.485 del Compendio si precisa che “…l’acqua è sempre stata considerata un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato…, con quest’ultimo inciso invece accuratamente trascurato).
Tra i fermenti e gli impegni l’impressione è che al mondo cattolico che si affaccia alla politica sfugga la drammatica interdipendenza planetaria delle difficoltà italiane, in gran parte spiovute da fuori: dalla crisi finanziaria all’Islam, ai barconi dei migranti fino alla grottesca guerra in Libia, dove il silenzio dei “pacifici” assomiglia all’atteggiamento degli struzzi. Certo, bellezza, è la globalizzazione: e nella Chiesa c’è chi rimpiange amaramente (anche se si proibisce di dirlo) una scelta post-conciliare: quella cioè, per un malinteso incontro con il mondo, di aver rinunciato in fretta a quella “lingua globale” (il latino) che era dote esclusiva e che sarebbe stata utile e davvero “universale” appunto nei tempi nuovi e incerti della globalizzazione.
Tornando nei nostri confini, nell’accentuato disagio per la politica “castale” e per la sordità del Palazzo (e qualche disgusto per i tanti “bunga-bunga”) la spinta a una qualche forma di “tensione unitiva” si fa forte, anche se non riesce a discendere per li rami. Forse, nella storica contrapposizione della Seconda Repubblica non emergono, autorevoli, nuovi “pontieri”. Eppure qualche segnale non manca: basta seguire su un versante gli sforzi di un Ceccanti (e del suo gruppo ex-Fuci intorno al sito “landino.it”) e su quello moderato, tra le voci ancorate alla potenza della Tradizione, un filone dialogante ancora embrionale che si potrebbe definire “evangelista” , sulla scia dell’elaborazione americana dell’economista Michael Novak e dell’arcivescovo di New York Timothy Dolan.
In conclusione il mosaico sfaccettato del cattolicesimo italiano e della sua presenza politica pubblico sembra indirizzarsi verso un’ipotesi sostanziale di moderno “neoguelfismo”, secondo la linea del capofila di una mediana scuola di pensiero, il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi. La scommessa per l’incidenza sul terreno istituzionale e civile sta però nella riuscita della compenetrazione delle diverse “anime” sulle quali pesano itinerari storici del tutto differenti. E forse è matura la stagione anche all’interno di un autentico “meticciato di culture”, secondo la feconda intuizione dell’ex patriarca di Venezia Angelo Scola: e non a caso si guarda allora con curiosità ai suoi primi passi sulla cattedra di Ambrogio. D’altronde il ruolo del laicato cristiano nel discorso pubblico torna fatalmente a doversi esprimere con una sua indispensabile autonomia. Non è un paradosso, ma, come spiega quel fine intellettuale del cardinal Ravasi, per i credenti e la comunità ecclesiale sta finendo il tempo del “santo” e ritorna, prepotente, il bisogno del “sacro”.