Non c’è questione morale che tenga. Divisioni interne e imbarazzanti prese di posizione – come l’astensione sull’abolizione delle province – evidentemente non colpiscono più di tanto l’elettorato, almeno quello potenziale. Agli italiani il Pd piace. Sondaggio dopo sondaggio, le percentuali del Partito democratico continuano a crescere. Certo, l’avversario è quello che è. Un centrodestra in caduta più o meno libera. Proprio pochi giorni fa, secondo un’indiscrezione raccontata da Repubblica, la popolarità del premier Silvio Berlusconi ha toccato il punto più basso: stando a una rilevazione di Palazzo Chigi il grado di fiducia degli elettori nei suoi confronti sarebbe sceso al 25 per cento. Ma il crollo del Cavaliere, da solo, non basta a spiegare l’ascesa del Pd.
Nonostante gli autogol commessi, i consensi di Bersani e i suoi aumentano. Ormai quasi tutti gli istituti di ricerca certificano il sorpasso del Pd ai danni del Popolo della libertà. La coalizione di centrosinistra – ad oggi l’alleanza con Sinistra Ecologia e Libertà e Italia dei Valori – sarebbe già nettamente in vantaggio su quella di centrodestra. Con percentuali che oscillano dal 41 al 46 per cento.
I dirigenti democratici non hanno tempo di indagare sul mistero. Al momento sono troppo impegnati a litigare sulla questione morale. Mercoledì scorso il Senato – con il presunto aiutino di una decina di anonimi parlamentari Pd – ha bocciato la richiesta di arresti domiciliari per l’ex assessore pugliese Alberto Tedesco. Una vicenda imbarazzante che, stando alle parole del vicesegretario Enrico Letta, rischia di causare «gravi danni» al partito. Difficile altrimenti. Anche perché, curiosamente, lo stesso giorno l’altro ramo del Parlamento ha condannato al carcere il Pdl Alfonso Papa.
E a salvare l’immagine del partito non saranno le dimissioni di Tedesco. Al momento piuttosto improbabili. Alla richiesta del presidente Rosy Bindi di rinunciare al seggio parlamentare, l’ex assessore ha risposto così: «Dovrebbe dimettersi lei, il suo moralismo mi fa orrore. Sono vent’anni che la vedo invocare manette e galera con un livore indegno di una persona civile». «Al partito serve un check up morale» ammette oggi sul Corriere della Sera il senatore Silvio Sircana, l’ex portavoce di Prodi. Non aiuta, da questo punto di vista, il procedimento per corruzione avviato nei giorni scorsi dai magistrati milanesi a carico del vicepresidente del Consiglio regionale lombardo Filippo Penati (che pure si è immediatamente autosospeso dal suo incarico).
Ma non si discute solo di moralità. Mentre Bersani si avvicina a Palazzo Chigi, nel partito cresce lo scontro tra le correnti. L’ultimo episodio riguarda i tentativi di modifica dell’attuale legge elettorale. Una vicenda che descrive perfettamente l’anarchia che ormai regna in casa Pd. Da una parte i dalemiani (primo tra tutti il dirigente Matteo Orfini) che raccolgono le firme per tornare al proporzionale. Dall’altra Walter Veltroni, Rosy Bindi e Arturo Parisi che presentano un referendum per riabilitare il Mattarellum. In mezzo il segretario Bersani, inascoltato da tutti, che boccia la via referendaria perché «le leggi elettorali si fanno in Parlamento».
E il voto in Parlamento per l’abolizione delle province? Roba da masochisti. Quando il 5 luglio scorso l’aula di Montecitorio ha votato il disegno di legge dell’Italia dei Valori, il Pd aveva la possibilità di mettere all’angolo la maggioranza. Venendo incontro alle richieste di gran parte della base e a una vecchia promessa elettorale. E invece i vertici del partito non hanno trovato di meglio che invitare i propri parlamentari all’astensione. Risultato: il Pdl e la Lega hanno salvato le province e il Partito democratico ha perso l’occasione di mettere a tacere i tanti militanti che accusano la casta dei partiti di voler conservare i propri privilegi.
Bersani ce la mette tutta, bisogna dargli merito. Meno di due mesi fa è persino riuscito a celebrare la vittoria dei referendari come un successo personale. Una scena curiosa: era stato proprio lui, qualche tempo prima, a invitare gli elettori del Pd a bocciare i quesiti sull’acqua pubblica. Un copione simile a quello delle amministrative di maggio, quando il Partito democratico scese addirittura in piazza per festeggiare la vittoria di due sindaci – Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris – da cui pure era stato sconfitto. Già, perché a Milano l’uomo del Pd, l’architetto Stefano Boeri, era stato battuto da Pisapia alle primarie. A Napoli, invece, il Pd Mario Morcone non era neppure riuscito ad arrivare al ballottaggio. Sconfitto al primo turno da quel De Magistris che il Pd non aveva voluto candidare.