I cieli africani sono stati insolitamente pieni di leader politici europei questi ultimo giorni. Angela Merkel è stata la prima a partire, tre giorni in Kenya, Angola e Nigeria; François Fillon, complice il ponte del 14 luglio, l’ha seguito a ruota, per visitare Costa d’Avorio, Ghana e Gabon in quattro giorni; anche David Cameron pensava di passare quattro giorni nel continente, celebrando il Mandela Day a Citta del Capo, ma si è dovuto limitare a Sud Africa e Nigeria, rinunciando alle tappe in Rwanda e Sudan per essere a Londra martedì 19 per l’audizione parlamentare di Rupert Murdoch.
Ciascuno aveva i suoi buoni motivi per rendersi in Africa. La cancelliera ha enfatizzato la promozione dei vincoli economici – la Lufhansa ha del resto appena lanciato un servizio per Luanda – e ha anche incoraggiato i due giganti dell’Africa atlantica ad assumere un profilo sempre più alto nella politica continentale – un segnale ben visto soprattutto da Eduardo dos Santos che non si è fatto pregare negli ultimi anni per intervenire in soccorso di altri dirigenti in difficoltà, magari non sempre i più amati dalle diplomazie occidentali. Eloquente testimonianza che Berlino intende sviluppare una strategia di lungo periodo con Abuja è stato l’annuncio della creazione di una commissione bi-nazionale, chiamata a riunirsi periodicamente per discutere di questioni di reciproco interesse.
Per il primo ministro francese era importante rassicurare due alleati importanti come Alassane Ouattara e Ali Bongo che Parigi rimane sempre pronto a correre in loro soccorso, anche con mezzi militari – le truppe di stazza ad Abidjan e Libreville nelle due basi che la Francia ha conservato in Africa Occidentale sono intervenute per portare il primo al potere dopo le elezioni presidenziali del 2010, e per permettere al secondo di perpetuare la dinastia famigliare alla morte del padre, Omar Bongo, nel 2009. Ma Fillon ha anche lasciato intendere che in cambio la Francia si aspetta un trattamento di favore per le proprie imprese, nella ricostruzione della Costa d’Avorio dopo gli anni di Laurent Gbagbo e nello sfruttamento delle risorse petrolifere e forestali del Gabon. E non ha dimenticato di strizzare l’occhio alla comunità francese nei due paesi francesi, forte di 25 mila elettori, rispondendo con dichiarazioni estremamente patriotiche alla proposta della candidata ecologista Eva Joly di sopprimere la parata militare del 14 luglio.
Il messaggio centrale di David Cameron è stato ancora più chiaro – un’area africana di libero scambio permetterebbe una crescita superiore all’ammontare dei flussi d’aiuto che il continente riceve attualmente. Tanto chiaro che il suo viaggio è definito da Downing Street come una missione commerciale, e non una visita di lavoro. Ma anche la cooperazione allo sviluppo ha ricevuto la sua importanza – prima di parlare alla Pan African University e d’incontrare il Presidente Goodluck Jonathan, Cameron ha visitato una clinica di Lagos finanziata dalla Global Alliance for Vaccines and Immunisation (Gavi). In Sud Africa, unico membro continentale del G20, il primo ministro inglese ha poi discusso temi di politica internazionale – Medio Oriente, Zimbabwe e Libia – e non si è dimenticato di promuovere il soft power britannico, con una visita ad una scuola di calcio appoggiata dalla Premier League.
L’aeroporto Rand di Johannesburg, in Sud Africa
Non è casuale che, al di là ovviamente della scelta di fare tappa in paesi diversi, l’attenzione al boom economico dell’Africa sia stata comune a tutti e tre i leader. Dopo essere rallentata a 3.1% nel 2009 a causa della crisi globale, la crescita è arrivata al 4.9% nel 2010 e, malgrado le attuali difficoltà in Nord Africa, dovrebbe accelerare nuovamente a 5.8% nel 2012. Più crescita vuol dire meno povertà – anche se questa rimane drammatica in molti paesi, come ci ricorda proprio in questi giorno la crisi alimentare in Somalia – e maggiori opportunità economiche. Le classi medie africane crescono a ritmi da BRIC – secondo la Banca Africana di Sviluppo vi fanno parte tra 300 e 500 milioni di persone – e sono ansiose di accedere a beni e servizi all’altezza delle proprie aspirazioni.
Anche se le tensioni politiche persistono, le opportunità d’investimento nelle risorse naturali si moltiplicano in giro per il continente – e quello che era un tempo un terreno quasi esclusivamente presidiato dalle multinazionali occidentali è ora teatro di una concorrenza intensissima da parte di cinesi, indiani, brasiliani, malesi, turchi e altri emergenti. Che spesso sembrano meno attenti a rispettare standard di comportamento virtuoso – nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, così come nella lotta alla corruzione – ma con altrettanta frequenza sono invece disposti a rischiare di più e a costruire relazioni profonde con l’Africa. Si pensi in particolare al commercio sino-africano, moltiplicatosi per 11 negli ultimi decenni e che ha fatto della Cina il principale socio commerciale del continente; nel complesso, i flussi Sud-Sud sono ormai pari al 39% del commercio africano, 16 punti in più che dieci anni orsono.
Un altro elemento importante è alle Nazioni Unite che il contingente africano sia il più numeroso (53 paesi, più l’ultimissimo nato, il Sud Sudan), che alle crisi africane siano dedicate più della metà delle sessioni del Consiglio di Sicurezza e che sette della 15 missioni di pace delle Nazioni Unite siano in Africa.
L’Italia si è accorta di tutto ciò? In parte sì – e non potrebbe essere altrimenti dato che il nsotro paese ha comunque un passato coloniale nella regione ed è unita ad essa da vincoli antichi (si pensi alla pervasiva presenza degli ordini missionari) e recenti (le migrazioni). A testimonianza di ciò il contributo finanziario alle missioni Onu – 5% nel 2010-12 che fanno dell’Italia il sesto contribuente – ed al Gavi – 1,3 miliardi nel 2000-2031 su un totale di 14,1.
Se però guardiamo alla capacità di proiezione, la nota è più dolente. In Africa sub-sahariana ci sono 21 ambasciate italiane – meno che Francia, Germania e Gran Bretagna, come la Spagna che però ne ha aperte di nuove negli ultimi anni e in più ha un ambasciatore in missione speciale per gli organismi internazionali africani. Soprattutto, con l’eccezione del periodo 2006/07, non si registrano visite da parte di un Presidente del Consiglio italiano nel XXI secolo. Probabilmente non il principale problema del Paese in questo momento, ma indubbiamente uno dei tanti cantieri aperti per l’avvenire.