Sgombriamo subito il campo agli equivoci. Se i Bric vogliono discutere la settimana prossima come intervenire in aiuto dell’euro e dell’Europa è perché sono seriamente preoccupati per la situazione e per le conseguenze immediate di un ulteriore aggravamento della crisi – non perché abbiano deciso che è venuto il momento di dare uno scossone definitivo al Vecchio Continente e di fare incetta delle rovine industriali.
Preoccupati perché il famoso decoupling, il biforcarsi delle sorti economiche di paesi industrializzati ed emergenti, è lontano dal realizzarsi. Già adesso i segni di rallentamento nei Bric (meno in Cina, certo, ma anche lì a giudicare dai dati del commercio estero) si moltiplicano e sono accompagnati dal persistere di tassi d’inflazione superiori al livello desiderato dalle autorità monetarie. Tranne che mentre in occasione della crisi del 2008 i Bric erano nell’invidiabile situazione di poter usare rapidamente e risolutamente la politica fiscale a sostegno delle proprie economie, nel 2011 questo sarebbe molto più complicato. E ovviamente nel 2008-09 il G20 intervenne in maniera concertata, mentre oggidì – se il G7 di Marsiglia dello scorso weekend serve per intuire cosa bolle in pentola – della cosiddetta governance globale capace di intervenire con lungimiranza e inventività per evitare la crisi non si vede neanche l’ombra.
Fosse anche di entità puramente simbolica, la disponibilità dei Bric di acquistare assets dei paesi europei sotto attacco, e soprattutto dell’Italia che appare ormai come il vero anello debole del sistema, avrebbe sicuramente effetti positivi. Mostrerebbe che i paesi che si apprestano a guidare l’economia globale nei prossimi anni – lungi da volerlo fare a spese dei paesi industrializzati – comprendono benissimo che la globalizzazione è interconnessione e interdipendenza. Se l’Occidente tradizionale si accartoccia in una crisi senza fine, chi compra i beni prodotti in Cina e i servizi forniti dall’India? Come fanno Russia e Brasile ad alimentare con le proprie materie prime le catene globali che si dipanano in Cina e nel resto dell’Asia sudorientale per produrre per i mercati americani ed europei? E, se le banche europee smettono di finanziare il Mittelstand tedesco e il Quarto Capitalismo italiano, dove verranno prodotte le macchine che servono alle fabbriche cinesi?
Lungi dalle ipotesi complottistiche, ci sono poi motivazioni puramente finanziarie che suggeriscono ai Bric di accelerare la diversificazione dei propri fondi sovrani e riserve. Il dollaro non perderà presto la sua supremazia, e certo non a beneficio del renmimbi che rimane di ardua convertibilità (anche nelle altre tre r, rublo, real e rupia).
Paradossalmente, un euro che esca politicamente rafforzato dalla crisi avrebbe acquisito sul campo i galloni per ambire ad un ruolo ancora più importante come valuta internazionale. L’intervento dei Bric sarebbe un passo importante in questa direzione, e rassicurerebbe chi – come la presidente del Medef (la Confindustria francese) – considera la finanza anglosassone responsabile delle tensioni sui mercati europei.
Al di là dei titoli di Stato, in Italia i Bric sarebbero però interessati anche alle privatizzazioni. Si parla di un nuovo Britannia, evocando il glorioso natante in cui la banca Warburg organizzò la storica presentazione del Tesoro agli investitori internazionali del programma di dismissioni d’imprese pubbliche. Certo questa volta di gioielli della Corona da mettere sul mercato via XX settembre ne ha meno che nel 1994, e le condizioni dei mercati finanziari mettono in guardia da firesale sales.
Però qualcosa di appetibile c’è anche se sul China Daily di oggi un ricercatore scrive che «l’acquisto di bond italiani dovrebbe essere condizionale, necessita di ulteriori approfondimenti e la Cina dovrebbe essere pronta per lo scenario peggiore».
Che i cinesi possano essere interessati a entrare nel capitale di Eni ed Enel non sorprende. Sono società ben gestite che generano flussi di cassa regolari, anche grazie alla garanzia della regolamentazione delle loro tariffe. Con i cinesi nel libro soci, in Africa e in Asia Centrale l’Eni potrebbe meglio resistere alla concorrenza – per esempio della Total in Libia; mentre l’Enel potrebbe cercare di rafforzare la presenza proprio in Cina, oltre ad aumentare il proprio profilo politico in America Latina. In teoria anche la Petrobras potrebbe essere interessata all’Eni, ma è difficile immaginare che la compagnia brasiliana, forte della sua eccellenza tecnologica, sia disposta ad accontentarsi di una posizione di rincalzo.
Ci sono poi le infrastrutture, sia quelle esistenti, sia quelle di cui si vagheggia. È probabile che i finanzieri cinesi vadano a chiedere ai loro colleghi di Temasek, il fondo sovrano di Singapore che direttamente o indirettamente ha investito nei porti e negli aeroporti italiani. Scoprirebbero che, se i soci locali sono quelli giusti, investire nelle infrastrutture in Italia non è tanto complicato (e del resto il presidente di Gemina, che dei singaporiani è socio in AdR, ha partecipato alla riunione di lunedì con il Ministro dell’Economia in cui si sarebbe parlato di privatizzazioni). Certo diverso è il caso di chi volesse lanciarsi in progetti più ambiziosi, che come insegna l’esperienza della Tav in Italia sono pressoché impossibili, ma perché gli emergenti, che delle stesse infrastrutture hanno altrettanto bisogno a casa loro, dovrebbero venire a realizzarle da noi?
In mano pubblica ci sono poi i servizi pubblici locali e si sa che il capitalismo municipale è estremamente grande e molto, molto complicato. Magari in qualche provincia cinese c’è qualche ambizioso burocrate disposto a investire soldi pubblici in qualche società italiana, ma lo farebbe probabilmente più per avere la scusa di venire spesso in vacanza nel Bel Paese che per motivi seri! È però vero che nella gestione dei servizi pubblici locali le sfide sono simili e che, laddove in Italia ci siano società con vere competenze, queste sarebbero utili ad investitori dei Bric. Si pensi per esempio alla telemetria o alla gestione dei rifiuti.
È evidente che la più appetibile delle partecipazioni del Tesoro è quella in Finmeccanica, dove oltretutto rimane aperta la partita della quota libica, ma qui la problematica si fa molto più complessa. Difficile, se non impossibile, pensare che Washington e Londra siano disposte ad accettare rappresentanti di Pechino e Mosca nel consiglio d’amministrazione di una società che realizza una parte importante del proprio business con il Pentagono e le forze armate della Nato. Più realistico pensare a Brasile e India, dove in compenso l’industria aeronautica è privata e quindi forse meno sensibile a grandi discorsi di politica economica internazionale. Un investimento della brasiliana Embraer in Finmeccanica, che magari avrebbe un senso, sarebbe peraltro reso difficile dal fatto che Alenia ha scelto i russi per sviluppare un jet regionale, proprio in concorrenza con i prodotti carioca.
Uscendo dal perimetro del parastato, dove invece non è fanta-economia pensare a un investimento cinese, magari pure in tempi brevi, è nelle banche, UniCredit in primis. Sia perché non è chiaro cosa faranno i soci libici dopo il cambio di regime a Tripoli; sia perché l’istituto di Piazza Cordusio ha una presenza capillare in Nuova Europa che è estremamente appetibile per le banche cinesi. Queste però si sono limitate per il momento a operazioni modeste, per investimenti che tranne che in un caso (la sudafricana Stanbic) non hanno mai superato il miliardi di dollari.
La vera madre di tutte le operazioni degli emergenti in Italia sarebbe però Telecom Italia. Certo il mercato italiano è maturo, ma in compenso i nostri consumatori di telefonia sono tuttora avidi di novità e quindi interessanti per un investitore industriale. Gli spagnoli, che fecero il sacrificio di entrare nell’azionariato soltanto per impedire che Carlos Slim s’impossessasse di Tim Brasil, sarebbero probabilmente felici di lasciare Telecom per potersi concentrare su altri dossier di maggiore importanza strategica. Vendendo, i soci italiani di Telco si aprirebbero poi le porte di un mercato interessatissimo – che sia quello cinese, o quello indiano. Infine, Franco Bernabè è uno dei pochi manager italiani a essere conosciuto in Cina, dove siede ormai da anni nel consiglio d’amministrazione di PetroChina, e sarebbe magari disposto a gestire la transizione.
Certo, se Telecom passasse in mani stranieri in Italia, unico tra tutti i paesi del G20 salvo l’Argentina, non ci sarebbe più telefonia nazionale … ma che nessuno ci venga a dire adesso – dopo che Infostrada è diventata britannica, H3G di Hong Kong e Wind russa dopo essere stata egiziana – che questo è un settore strategico!