A Natale, subito dopo aver lasciato il Riformista per lanciarmi nell’avventura de Linkiesta, tornai a casa per i tradizionali festeggiamenti. E in quell’occasione mio padre, col garbo che solo un genitore può avere, mi si avvicinò e chiese: “Ti dispiace se noi adesso compriamo il Fatto?”.
È un episodio personale, che però reputo emblematico per provare a capire questo incredibile fenomeno editoriale che va sotto il nome di Fatto quotidiano, giornale che in questo weekend giustamente si autocelebra e festeggia in Versilia i due anni di vita. Sì, giustamente. Perché in Italia un successo così travolgente e immediato per un quotidiano è difficile da ricordare. Bisogna tornare a Repubblica, ma in quel caso le cose andarono diversamente. L’inizio fu stentato, e anche parecchio, e solo col tempo la creatura di Eugenio Scalfari si affermò per poi arrivare addirittura a contendere al Corriere della sera il primato di quotidiano più venduto in Italia.
Per la creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vice e anima ideologica, se mi consentite il termine), è bastato il primo giorno per capire che l’idea era quella giusta. Oggi si dirà che la strada era già stata tracciata, che bisognava solo percorrerla. Era evidente ai più, bastava dare una scorsa alle vendite dei libri di Travaglio, oppure all’audience delle trasmissioni tv di Michele Santoro. Col senno di poi, si sa, sono bravi tutti. Ma non è che prima della nascita del Fatto non esistessero quotidiani fortemente critici con Berlusconi e il “suo stile di vita”. Repubblica c’era eccome. Ma, evidentemente, non era abbastanza.
Basta poco per accorgersene. Basta soffermarsi un po’ vicino alle edicole, meglio se a quelle dei quartieri bene, un po’ radical chic. Signori distinti e signore eleganti arriveranno per chiedere una copia del Fatto. E se pure dovessero doppiarlo con Repubblica, state certi che il quotidiano esibito come tratto distintivo sarà quello con la testata rossa e la scritta “non riceve alcun finanziamento pubblico”. Lo ostentano come un tempo veniva ostentata l’Unità col pallino rosso, oppure il manifesto. Siamo diversi e ce ne vantiamo.
È doveroso dirlo, a me il Fatto non piace. Non mi piace, sopra ogni cosa, la contiguità, sarebbe più corretto definirla osmosi, tra la direzione, la redazione, il luogo di lavoro e la magistratura. Sembra che questo giornale venga materialmente prodotto nelle Procure. Non mi piacciono il tono e lo stile di Travaglio; non sopporto quel storpiare i cognomi per irridere le persone di cui parla. Lo trovo fascista. Non mi piace che le Procure vengano erette a dispensatrici di verità. Non mi piace che le indagini vengano presentate come verità processuali. Perché poi della sentenza non se ne ricorda nessuno, ma dei titoloni di prima pagina sì.
Accanto alla scritta già citata, che campeggia sotto la testata, ne aggiungerei un’altra: “quotidiano che si basa sulla sistematica violazione del segreto istruttorio”. Frase che potrebbe indurre a un sentimento di ingenuità da parte mia. Insomma, non me ne vogliano i colleghi: so bene che una notizia è una notizia, mi frega poco se a passarmela è il pm o un portantino dell’ospedale. Su questo non ci piove. Diverso, però, è il discorso quando alla base sembra esserci un passaggio sistematico di informazioni che, per la legge, dovrebbero rimanere nel segreto dell’aula. È un meccanismo eversivo, sì eversivo, che in nessun paese civile d’Europa potrebbe avvenire. Ma qui, già lo so, s’avanza il dibattito sulla civiltà del nostro paese e allora sul punto mi taccio.
Epperò, epperò, c’è anche altro da dire. Il Fatto porta con sé due meriti che un giornalista non può non riconoscere, e un filo invidiare. Il primo è che è un giornale libero. Che non fa sconti a nessuno. Certo, il nemico uno è di gran lunga lui, sempre lui, fortissimamente lui, con la sua accolita. E il successo, d’altro canto, è dovuto a lui. Ma il quotidiano di Padellaro non risparmia nemmeno gli altri: da D’Alema a Montezemolo, da Penati a Bersani. E, soprattutto, quest’estate ha dato prova di grandissima onestà intellettuale criticando – come nessun altro ha avuto il coraggio di fare – la presenza e il discorso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al meeting di Comunione e liberazione. Perché, diciamoci la verità, a picchiare sul Cavaliere ormai sono bravi tutti, persino i più pavidi della prima ora; ben più delicato è invece muovere rilievi, e anche qualcosa di più, al Quirinale.
La libertà conduce dritta dritta alla seconda dote. Il Fatto ha ridato valore a un concetto che in Italia sembrava ormai bello che seppellito: la primazia della notizia. Senza guardare in faccia a nessuno. I nostri giudici sono i lettori, versano ogni giorno un euro e 20 centesimi ed è a loro che dobbiamo rispetto. Un concetto che ci riporta indietro, a Walter Lippmann quando sosteneva che un giornalista di fatto non ha amici e risponde solo alla propria coscienza. Il Fatto sembra aver tracciato una linea, quella del rigore cui un politico deve attenersi. E non deroga. Poi si può discutere del modo. Ma tiene il punto e i lettori lo sanno. E si fidano. Ogni giorno di più.
Anche il modo di scrivere gli articoli non è lasciato al caso. I titoli sono titoli, persino eccessivi, a volte fastidiosi al punto da sfociare nel ridicolo. Ma nel giornalismo di Travaglio e Padellaro il titolo che si presta a una duplice interpretazione non esiste. Così come non esiste un corsivo criptico. O una notizia ben nascosta al quarantesimo rigo, al riparo tra un’allusione e un inciso.
Lo so, quest’articolo non nasconde un po’ di invidia. È venuto così e quindi vuol dire che c’è. A me quel giornale non piace, spesso ne rido e mi diverto finanche a sbertucciarlo. Ma trasuda giornalismo. E passione. E questo va riconosciuto. Non a caso, se ne sono accorti anche gli italiani. Che poi, in fondo, così stupidi non sono.