TRENTO – Il prodotto vitivinicolo nazionale ha raggiunto «posizioni di eccellenza anche a fronte di un mercato internazionale fortemente competitivo» e ciò «ha da sempre contribuito a definire l’identità culturale del nostro paese, non a caso chiamato dai greci anche ‘Enotria’». Sono questi alcuni dei passaggi del messaggio inviato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla 66^ assise degli enologi italiani, svoltasi nelle settimane scorse.
Eccellenti produzioni, però, non sempre coincidono con un brillante quadro economico-finanziario di settore. In effetti pare proprio che il vento della crisi spiri forte tra i filari di vite del Trentino: una consistente massa debitoria rischia di strangolare le gloriose cooperative vitivinicole trentine, che hanno fatto conoscere al mondo, tra gli altri, il celeberrimo spumante Trento doc metodo classico, i vini Teroldego, Marzemino, Nosiola. Fonti interne al mondo cooperativo parlano di 4-500 milioni di euro di debiti spalmati sulle cantine sociali. Debiti accumulati negli anni a causa di investimenti faraonici, scelte manageriali discutibili e megalomani, pur sempre avallate dalla influente Federazione delle Cooperative Trentine e generosamente sostenute dalla ricca Provincia Autonoma di Trento.
Basti pensare alla “Cittadella del Vino”, un progetto studiato da architetti di fama internazionale, con cui la cantina Mezzacorona realizza nel 2004 la più grande cantina vinicola d’Italia ed una delle più imponenti d’Europa. La grandeur dei manager cooperatori trentini si esprime anche, come nel caso dell’ex direttore generale di Cavit, con la decisione di dare avventurosamente vita ad uno stabilimento produttivo in Cina, poi chiuso nell’arco di due anni con una perdita netta di svariati milioni di euro; o di aprire un prestigioso ristorante di rappresentanza nel cuore del centro storico di Trento, inseguendo l‘illusione di entrare a far parte del circuito dei ristoranti pluristellati della guida Michelin.
Degno di menzione anche il “caso scuola” della cantina LaVis, che, tra il 2001 ed il 2006, compie spericolate e costose acquisizioni (Cesarini Sforza Spumanti, Poggio Morino a Scansano, Casa Girelli, Villa Cafaggio a Panzano in Chianti), inaugura un lussuoso relais con annesso ristorante, finanziato anche in questo caso con soldi pubblici erogati dalla Provincia (ca. 3 milioni di euro): il conto di queste e di altre operazioni condotte dalla dirigenza di LaVis viene presentato ai soci della cooperativa nel 2009, quando la cantina viene commissariata dalla giunta provinciale per dissesto economico-finanziario e chiude il bilancio con 146 milioni di euro di indebitamento, raddrizzato a quota 111 (di cui 40 per fideiussioni bancarie) nell’ultimo esercizio approvato nelle settimane scorse.
Gli anni novanta ed i primi anni del nuovo millennio rappresentano il periodo dei soldi facili, delle vacche grasse, in cui però le risorse «vengono spese male nei marmi delle cantine, invece che nella qualità e quindi i costi di gestione di strutture fuori scala finiscono con l‘aggravare i conti», fa notare Emilio Pedron, esperto mondiale del settore.
Sono gli anni in cui trova sbocchi speculativi anche nel mondo del vino l’intreccio autoreferenziale tra politica – il cui dominus incontrastato, da oltre 20 anni, è Lorenzo Dellai, fondatore della Margherita prima e di Api poi -, Federazione bianca delle cooperazione e in parte finanza della Curia con la potentissima Isa Spa. Quest’ultima, guidata dall’inossidabile Giuseppe Camadini, esponente di primo piano della finanza cattolica, già Presidente della Cattolica Assicurazioni, è una vera e propria holding, le cui molteplici ramificazioni danno l’idea della trasversalità finanziario-politica perseguita.
Isa Spa vanta in particolare partecipazioni nei settori bancario (Banca di Trento e Bozano-Gruppo Banca Intesa, Ubi), assicurativo (Itas Mutua, Cattolica Assicurazioni), finanziario (degna di nota la partecipazione nella Mittel Spa di Giovanni Bazoli e del suo amico raider Romain Zaleski), nonché nei media (Avvenire Spa, Seta Spa, controllata dal Gruppo L’Espresso ed editrice dei quotidiani Alto Adige e Trentino).
La holding del Vescovo, come Isa Spa viene definita a Trento, è partner di LaVis nel 2005, al momento dell’acquisto di “Casa Girelli“: una cantina, quest’ultima, allora in grande crisi, imbottigliatore di vino proveniente prevalentemente da altre regioni, per giunta di bassa qualità e che nulla dovrebbe avere a che fare con i vini di LaVis.
L’acquisizione in effetti non ha l’obiettivo di sviluppare nuove opportunità commerciali, come si legge nei comunicato stampa dell’epoca, ma una finalità meramente speculativa: la Girelli occupa un terreno a Trento sud per il quale è prevedibile una sua trasformazione urbanistica in edificabile, che ne farebbe lievitare a dismisura il valore. Di qui la joint venture con Isa Spa, allora presieduta da Diego Schelfi, attuale presidente della Federazione delle cooperative trentine, che dunque si fa volentieri carico dell’acquisto del 30% delle quote di Casa Girelli.
I ruggenti anni a cavallo del 2000, sono anche gli anni in cui il prezzo medio pagato ai contadini per un chilo di uva arriva a 1,35 euro con punte oltre i due euro (contro i 40 centesimi pagati mediamente in Veneto); si tratta di prezzi addirittura superiori a quelli del costo di una bottiglia di vino all‘ingrosso! Come sia possibile ciò è presto detto: Cavit, la grande struttura cooperativa che associa 11 delle 15 cantine sociali trentine, acquista uve dal Veneto e da altre regioni (in ciò tradendo la mission di utilizzare esclusivamente le produzioni di uve locali) raggiungendo il duplice scopo di riuscire a mantenere elevate le remunerazioni per i contadini trentini e aumentare sempre più le quantità di vino imbottigliato in Trentino, senza limitarsi all’impiego esclusivo delle uve del territorio.
Una nostra autorevole fonte racconta che «il Trentino ha una capacità produttiva di 120 milioni di bottiglie, ma in realtà l’imbottigliato vero trentino ammonta a 60 milioni di bottiglie, contro un imbottigliato complessivo pari addirittura a 250 milioni di bottiglie». Il sistema, però, complice la crisi e l’aggressività della concorrenza nazionale ed internazionale, negli ultimi anni dà segni di schizofrenia e le performance economico-produttive del mondo cooperativo vitivinicolo sono poco brillanti. A cominciare, come dicevamo, dall’insidioso livello di indebitamento raggiunto, che tocca, oltre LaVis, anche gli altri due colossi: Mezzacorona e Cavit, campioni della cooperazione, che nell’ultimo esercizio fatturano rispettivamente 145 e 136 milioni di euro.
Gli ultimi dati di bilancio, al 31 agosto 2010, di Mezzacorona – che nel 2009, come mai era accaduto nella storia della cooperazione, ricorre, attraverso la controllata Nosio Spa, all’emissione di un prestito obbligazionario di 20 milioni di euro – presentano un indebitamento finanziario pari a 62,3 milioni di euro, a fronte di un patrimonio netto della società di 57,5 milioni di euro.
Meno peggio va la Cavit, il cui ultimo bilancio approvato (2009-2010) evidenzia: una esposizione finanziaria di 23,4 milioni di euro, costi esterni in crescita (+8 milioni di euro) che superano l’incremento dei ricavi netti (+7,6 milioni di euro), investimenti pari a 11,1 milioni, che però non producono utili significativi (1 milione di euro). Come è stato possibile che né il Presidente della Provincia Dellai né il suo sodale capo della cooperazione “bianca” Diego Schelfi si siano accorti del vicolo cieco nel quale la filiera si stava infilando? Schelfi, recentemente si è difeso con una lunga lettera ai media in cui ammette: «D’accordo, se fossimo stati più severi e lungimiranti avremmo potuto negli anni scorsi investire di più e meglio […] A volte purtroppo ci vuole una crisi per avviare certi processi».
Un “processo” avviato a suon di grandi consultazioni, proseguito con la redazione, nel maggio 2010 per conto della Federazione delle Cooperative, di un primo piano di rilancio-salvataggio (il cosiddetto “Piano Pedron”), che ha l’ambizione di riorientare le scelte delle grandi cantine, Cavit e Mezzacorona per prime, suggerendo la costituzione di una società per azioni deputata all’imbottigliamento ed alla commercializzazione, legata alle cantine sociali da patti parasociali. Nel novembre 2010 però, il “Piano Pedron”, che non entusiasma le grandi cantine, viene superato da un nuovo progetto di riassetto del sistema vitivinicolo, commissionato stavolta dalla Provincia di Trento. Il passo successivo, e siamo ai giorni nostri, è il varo, da parte della Giunta Provinciale, di una Consulta del Vino, incaricata di indicare le scelte strategiche; l’organismo viene prevedibilmente impallinato dall’Associazione dei Vignaioli del Trentino presieduta da Nicola Balter per via dell’assegnazione della maggioranza dei 16 posti previsti alla cooperazione.
La giunta provinciale corre dunque ai ripari, archivia la consulta e salomonicamente affida, nelle settimane scorse, a «quattro saggi di riconosciuta esperienza e competenza professionale, il compito di fare sintesi […] di riempire di proposte e di priorità operative […] un percorso che finalmente permetta di giungere in breve tempo a una condivisione di obiettivi e strategie». I quattro saggi naturalmente non lavoreranno gratuitamente: “mamma” Provincia, dopo anni di finanziamenti copiosi alle coop vitivinicole, ha assicurato un primo finanziamento di tre milioni di euro.
«Siamo probabilmente di fronte al classico caso della montagna che partorisce un topolino», ci rivelò mesi fa un disilluso storico vignaiolo, che preferì rimanere anonimo. Il timore, infatti, è che con una conclusione simile, giunta dopo oltre un anno di discussioni tra le diverse anime del settore vitivinicolo trentino, non si faranno progressi, almeno a breve termine. Un quadro, questo, che sembrerebbe confermato dal piano di rilancio del vino trentino messo a punto dai quattro saggi e presentato pubblicamente negli scorsi giorni: un insieme di buone intenzioni, incentrato sulla opportunità di rafforzare la promozione dell’identità vitivinicola trentina. «L’ipotesi, accarezzata dal piano, di smembramento “volontario” di Cavit, con l’intento di dar vita ad una newco per piccole produzioni autoctone di qualità – suggerisce il nostro interlocutore, che abbiamo richiamato nei giorni scorsi – tocca però solo in parte il nodo dell’eccessiva ”industrializzazione” della produzione vitivinicola a danno della qualità e delle piccole cantine».
La prospettiva pare dunque quella in cui non si assisterà a nessuna rivoluzione, le cantine sociali di maggior peso, Cavit in testa, continueranno a dettare legge, inseguendo grandi numeri, vendite di milioni di bottiglie attraverso la Gdo internazionale, i supermercati americani, gli hard discount tedeschi ed inglesi; ciò con il rischio che i vitigni trentini siano sempre più vocati a tipologie internazionali e che le coltivazioni autoctone divengano residuali.
Per approfondire il modello Trentino:
Se l’Italia innova come Trento ce la fa
In Italia c’è chi può vantare una tripla A. Non è l’amministrazione centrale (ferma ad AA-) ma la Provincia di Trento. L’agenzia Fitch ha infatti confermato il rating AAA, con outlook stabile. Riproponiamo quindi la nostra inchiesta su una città e provincia modello. Un ottimo ateneo, un’amministrazione provinciale che punta sull’innovazione, imprenditori vivaci e la presenza di ottimi centri di ricerca. Sono gli elementi che trasformano Trento e la sua provincia nella capitale italiana della knowledge economy. Dalla biologia sintetica alle tecnologie semantiche passando per i genomi sequenziati, Trento si pone come modello per il resto del Paese. Con un ruolo specifico del pubblico.