Prosegue il viaggio de Linkiesta nella manifattura italiana, raccogliendo la provocazione che Romano Prodi ha lanciato sul blog Technology Review, di Sandro Ovi. La seconda tappa è dedicata al settore tessile-moda, che in termini di valore aggiunto rappresenta l’11% del manifatturiero, il doppio del settore auto. Un comparto, quello del tessile, che da diversi anni vive una profonda trasformazione, iniziata con l’abbattimento delle quote all’import nel 2005 ed accelerata dalla crisi globale. A rendere ancora più complicato il quadro, un aumento impressionante, negli ultimi due anni, del prezzo delle materie prime: + 99,4% per il cotone, + 43,6 % per la lana, + 34,6% per la seta, + 72,4% per le fibre. Non mancano però anche segnali positivi. La Cina, che importa nel nostro Paese poco meno di 5 miliardi di euro (erano 3 nel 2005!), fa meno paura di qualche anno fa; il processo di spinta alla delocalizzazione delle lavorazioni, in particolare nel Far East ed Est Europa, si è decisamente ridimensionato e grandi catene distributive, come la britannica Marks & Spencer, le statunitensi Banana Repubblic e Ann Taylor, così come imprese nostrane come Max Mara tornano a produrre le proprie collezioni in Europa e dunque anche in Italia; inoltre il crollo del fatturato complessivo accusato dal settore nel 2009 (46,3 miliardi di euro rispetto ai 54,7 del 2008) sembra acqua passata.
Ciò a giudicare dai numeri del 2010 e dalle proiezioni sul 2011.
Nel 2010 infatti i ricavi del settore, fortemente incentrato su una organizzazione distrettuale, sono stati interessati da una dinamica positiva, con una crescita del 7,2%, che ha consentito di toccare quasi 50 miliardi di fatturato; di questi 24,5 sono derivati dalle esportazioni, concentrate, per quasi il 40% in Francia (2,8 miliardi), Germania (2,6), Spagna (1,6), Regno Unito (1,3), Stati Uniti (1,2), come si può vedere dalla nostra infografica. «Dopo che il saldo commerciale, nel 2009, si è ridotto del 30%, – ci conferma Michele Tronconi, Presidente di Sistema Modena Italia e patron di una storica impresa del settore – l’export, più che il mercato interno sempre più asfittico, è tornato ad essere la valvola di sfogo per le nostre imprese tessili e si conferma il vero traino per il comparto; i dati a consuntivo a maggio ci dicono che il saldo commerciale è stato positivo per 2,3 miliardi e questo è un segnale assai incoraggiante, migliore dello stesso periodo del 2010».
La Milano fashion week
Lo stesso “Monitor dei distretti” di Intesa San Paolo redatto a giugno rileva come nel primo trimestre 2011 l’export dei distretti del sistema moda confermi i segnali positivi già emersi nel 2010. Chiudono in positivo i principali distretti del tessile e abbigliamento, fatta eccezione per il tessile e abbigliamento di Treviso (che soffre in particolare in Germania e Francia) e la maglieria e abbigliamento di Carpi, che sconta performance negative sul mercato svizzero. Il distretto carpigiano, che oggi conta circa 1050 imprese (-150 unità sul 2008), e 6.800 addetti (-1000 sul 2008) per un fatturato complessivo, alla fine del 2010, pari a 1,4 miliardi di euro (-500 milioni sul 2008), continua la sua trasformazione da distretto vocato alla maglieria a distretto vocato alla confezione. Qui poco più di una decina di marchi, tra cui spiccano Blumarine, Liu-jo, Lormar, Twin-Set, realizzano quasi 60% dei ricavi complessivi.
Si tratta di quelle imprese maggiormente strutturate, che sono riuscite a riposizionarsi su fasce di mercato a maggiore valore aggiunto, collocandosì nella fascia medio-alta e in quella alta, grazie a consistenti investimenti nella ricerca sul prodotto, nel marchio e nelle reti distributive. Per la restante parte, piccole e piccolissime aziende, il futuro appare molto incerto. Sempre sul fronte dell’export, stando ai dati del “Monitor dei distretti”, registra un tasso di crescita superiore al 20% il tessile di Biella, che mostra ottime performance su tutti i principali mercati di riferimento (Germania, Svizzera, Hong Kong, Cina, Francia e Romania).
Nello storico distretto piemontese della filatura di lane e di altri filati pregiati, dopo sette anni di performance negative, il 2010 ha rappresentato l’anno della svolta: il fatturato del settore, secondo i dati elaborati da Sistema Moda Italia, ha recuperato le perdite dell’anno precedente, segnando un +20,1% a 2,9 miliardi, e tornando così ai valori del 2008. Anche a Biella la destrutturazione e ricomposizione industriale è stata pesante, con l’effetto di ridimensionare aziende, espellerne altre (in particolare terzisti) e di spingere ad una storica aggregazione tra il colosso biellese Zegna Baruffa Lane Borgosesia, Filatura di Chiavazza e Botto Poala, che hanno così dato vita al gruppo familiare leader mondiale nei filati per maglieria.
Sta ripredendo fiato il distretto di Prato, anche in questo caso trainato dalle esportazioni (+17,9%), con risultati positivi lungo tutta la filiera, dai filati ai tessuti all’abbigliamento e alla maglieria, con punte di incremento negli ordinativi dei primi 6 mesi che toccano addirittura il 40% e che in media si attestano attorno al 20%. Ciò dopo che negli ultimi 10 anni l’area ha perduto 1,5 miliardi di fatturato, 2 mila aziende, 10 mila posti di lavoro e nel solo comparto tessile il 43,6% del fatturato, risalito l’anno scorso dell’11,6% a quota 3 miliardi (4,5 miliardi compreso l’abbigliamento). La crescita ha beneficiato dell’accelerazione delle vendite in Germania, Romania e Cina, ma sono rimaste positive, anche se in decelerazione rispetto al 2010, le esportazioni verso Francia, Spagna, Regno Unito e Hong Kong. Si è invece nuovamente fermato il mercato russo, dove le esportazioni di Prato avevano ripreso a correre nel 2010. Un distretto, quello di Prato, fortemente penetrato da imprese cinesi: sulle circa 6000 presenti nei vari distretti tessili della penisola, a Prato risultano attive ben 3.600 imprese cinesi di abbigliamento, pari all’82,3% del totale provinciale. Di queste sono circa 240 quelle attive nella vera e propria produzione tessile, mentre il resto opera nel segmento delle confezioni. Il volume di ricavi generato dalle aziende a conduzione cinese è attorno ai 2 miliardi di euro. Si tratta di una stima, per molti analisti fatta per difetto, visto che l’altra faccia della presenza imprenditoriale cinese a Prato è un dilagante sommerso e illegalità diffusa: un’economia «di rapina», come l’ha definita anche recentemente il sindaco Roberto Cenni.
Scarpe alla settimana della moda milanese
Tornando al recente rapporto di Intesa San Paolo, sempre sul fronte dell’export, sono buone le performance anche nel distretto serico di Como (+14,2%), che registra un buon andamento delle vendite sui mercati francese, tedesco e inglese. Spicca inoltre il balzo dell’export verso la Svizzera, mentre è in calo quello verso la Spagna. Cresce a due cifre anche il tessile e abbigliamento della Val Seriana (+12,1%), grazie soprattutto all’ottimo andamento delle vendite sul mercato russo. In crescita, ma su ritmi più contenuti, l’abbigliamento di Empoli (+9,9%), che cresce negli Stati Uniti, in Germania e Svizzera, ma soffre in Francia, Regno Unito e Spagna.
Anche il distretto delle calzature del Brenta cresce con un tasso a due cifre (+14,3%), trainato dal buon andamento delle vendite sui mercati francese, tedesco e russo. Più contenuta la crescita del polo della calzatura sportiva di Montebelluna (+3,8%) che sconta le maggiori difficoltà in Germania e Spagna, primo e terzo mercato di sbocco rispettivamente. Il distretto dello Sportsystem, come viene da tempo denominato il sito produttivo di Montebelluna (400 aziende per poco meno di 3 miliardi di fatturato), noto per brand come Geox, Stonefly, Nordica, Asolo, Lange, è probabilmente il paradigma della deindustrializzazione che ha caratterizzato negli ultimi anni pezzi importanti del comparto tessile-abbigliamento. In quest’area, dove multinazionali come Adidas, Nike, Rossignol hanno messo ormai radici, sono concentrate le attività di ricerca ed innovazione, di ideazione, di progettazione, di design dei diversi prodotti; ma la produzione è altrove, soprattutto in paesi del Sud Est Asiatico, dove il costo del lavoro continua ad essere almeno 5 volte inferiore a quello europeo. Negli accessori moda si conferma la crescita a due cifre dell’occhialeria di Belluno, trainata soprattutto dal mercato statunitense, primo paese di destinazione dell’area. Bene anche l’export negli altri mercati di riferimento: Francia, Spagna, Regno Unito tra i tradizionali, Hong Kong fra gli emergenti.
«Nonostante gli incrementi siano a due cifre, esportiamo ancora poco nei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina, ndr) – confessa Tronconi – e se vogliamo crescere come sistema moda è vitale aumentare in gli sforzi di penetrazione commerciale in tali aree». I segnali positivi sull’export non paiono però sufficienti a frenare un ridimensionamento quantitativo nel numero di imprese attive nel comparto moda, così come degli addetti. Anche nel 2010 è proseguita l’emorragia di aziende, per lo più di piccole dimensioni, quelle cioè che costituiscono a tutt’oggi l’ossatura del settore moda: dalle 61.424 unità del 2005, si è passati alle 53.086 del 2010, con una conseguente contrazione di addetti pari a ben 50 mila unità nel solo biennio 2008-2010, passati a poco meno di 460 mila unità. Testimonia il fatto che il mercato del lavoro ha continuato, negli ultimi anni, ad essere connotato da gravi difficoltà, il dato sulle ore di cassa integrazione autorizzate, cresciute da 37,3 nel 2008 a 96,3 milioni di h nel 2009, fino a 125,3 milioni di h nel 2010.
Sfilata a Milano
La crisi ha accelerato un processo di trasformazione del settore, in atto peraltro dal 2005, anno seguente a quello in cui sono state abbattute, come detto, le residue barriere all’import sui prodotti tessili. Si spiega semplicemente così la crescita esponenziale in termini quantitativi e di valore di beni prodotti in particolare in Cina, avvenuta negli ultimi anni. Per l’Italia le aree più importanti di provenienza dell’import sono appunto la Cina (36,4%), la Turchia (10,6%), la Tunisia (8,7%), la Romania (7,4%), l’India (4,5%). L’ingresso nel mercato italiano di prodotti a basso costo, unitamente alla congiuntura sfavorevole, hanno fatto sì che, dal 2008 ad oggi, venissero spazzate via non poche imprese.
Hanno suscitato grande scalpore alcune crisi aziendali. Come il caso della Omsa di Faenza, lo storico impianto di collant di proprietà della Golden Lady, che ha trasferito tutta la produzione in Serbia, aprendo così i battenti della cassa integrazione per ben 350 dipendenti. Eclatante il crac, nel 2010, di Mariella Burani Fashion Group, solo in parte, però, attribuibile alle avverse condizioni di mercato.
Dopo un numero abnorme di acquisizioni dal 2000 in poi, la costituzione di uno svariato numero di scatole finanziarie e quotazioni sulle borse di Milano e Londra, il gruppo, nonostante alcuni piani di rientro messi a punto anche con l’intervento di Mediobanca, ha maturato a fine 2009 un indebitamento di 500 milioni. Dopo l’uscita di Mediobanca dalla cordata di istituti bancari tesa a salvare l’azienda, il castello di società si é sgretolato e la capofila Burani Private Holding è stata messa in liquidazione all’inizio del 2010. Conseguenza: arresto e accusa di bancarotta fraudolenta per Walter Burani e per i figli Giovanni e Andrea.
La crisi pare invece essere stata all’origine della chiusura dello storico stabilimento Playtex di Pomezia: nulla da fare per i 120 dipendenti di Pomezia, messi in cassa integrazione per 24 mesi dal luglio 2010, e trasferimento della produzione dei marchi Playtex, Wondebra, Dim e Unno nello stabilimento di Grassobbio, vicino Bergamo, da dove peraltro già escono i marchi Lovable e Fila Underwear
Anche il settore della filatura, che ora sta tornando ai livelli produttivi pre-crisi, ha subito il prepotente impatto della congiuntura negativa degli ultimi 2-3 anni. Ed allora non si possono non segnalare i casi della Zegna Baruffa di Borgosesia – la più grande filatura d’Europa con i suoi 700 dipendenti – della Filatura e tessitura di Tollegno, della Filatura di Grignasco, l’azienda dell’ex ministro Giancarlo Lombardi: tutte imprese che, assieme a tante altre, hanno dovuto ricorrere massicciamente alla cassa integrazione, cosa mai accaduta prima nel distretto di Biella.
Un altro caso di crisi aziendale che ha fatto notizia – questa volta con un lieto fine – che ha fatto notizia è stato quello di Ittierre: grossa realtà produttiva a Campobasso, impegnata nella progettazione e realizzazione di linee di abbigliamento e accessori (Pierre Balmain, Galliano, Ermanno di Ermanno Scervino, C’N’C, GF Ferré, Fiorucci , Acht). L’azienda entra in difficoltà nel 2009, nel pieno della crisi. Dopo cassa integrazione e amministrazione controllata, nell’autunno del 2010, Ittierre sembra destinata a chiudere definitivamente i battenti; invece spunta un acquirente, il gruppo comasco Albisetti, che decide di trasferire negli stabilimenti molisani la produzione delocalizzata negli anni precedenti nell’Est Europa.
Le code avvelenate della crisi non hanno lasciato indenne il settore degli accessori moda. Emblematico è il caso di Safilo, gruppo che commercializza le collezioni a marchio Safilo e, tra gli altri, Smtih Optics, Oxydo, Blue bay, Carrera, Dior, Emporio Armani. Safilo, proprio all’inzio dell’anno, ha messo in cassa integrazione, per un periodo di 24 mesi, 826 lavoratori, a fronte di eccedenze occupazionali che ammonterebbero addirittura a poco più di 520 unità. Ma la storia del settore moda negli ultimi 2-3 anni non è solo fatta di crisi aziendali, vere o pilotate. Non sono mancati in effetti casi di aziende che hanno migliorato il proprio posizionamento competitivo, investendo caparbiamente in innovazione, ricerca, qualità.
La Milano Fashion Week
In tal senso Prada è senza dubbio l’esempio più illuminante. Collocata sulla borsa di Hong Kong nel giugno scorso, la maison milanese ha chiuso un bilancio 2010 eccezionale, con ricavi a 2 miliardi, in crescita del 24,2% rispetto al precedente esercizio, un utile netto passato da 100,2 a 250,8 milioni, mentre l’ebitda è balzato a quota 535,9 milioni, più 84,7% rispetto al 2009 e con un’incidenza del 26,2% sui ricavi. Un successo, quello di Prada, anche dovuto ad una vocazione sempre più internazionale: il fatturato viene infatti realizzato solo in misura marginale in Italia (390 milioni) e in Europa (450 milioni) e in gran parte nei paesi dell’Asia e del Pacifico (650 milioni ) ed in Giappone (220milioni). Sono brillanti anche i risultati 2010 della quotata Tod’s: il fatturato consolidato ammonta a 787,5 milioni di Euro, con una crescita del 10,4% rispetto al 2009. Significativo il miglioramento della redditivita’: l’Ebitda del gruppo è pari 193,1 milioni di euro, con un incremento del 21,7% rispetto al 2009 – una crescita più che doppia rispetto a quella dei ricavi – mentre l’utile netto consolidato ha raggiunto quota 110,8 milioni di euro, in aumento del 28,6% sul 2009.
Altro bell’esempio, nel comparto accessori-moda, del made in Italy che funziona, nonostante la crisi, è Luxottica, impresa leader mondiale, che occupa 61 mila dipendenti. L’azienda capitanata da Leonardo del Vecchio, perno del cosiddetto distretto degli occhiali – 485 imprese, 12.806 addetti per un fatturato di 2.105 milioni di euro di cui 1.750 all’export – ha chiuso brillantemente il 2010 con un fatturato pari a 5,8 miliardi, in crescita del 13% sul 2009, un balzo dell’utile del 34%, che ha raggiunto quota 407 milioni di euro ed un piccolo arretramento dei debiti (da 2,3 a 2,1 miliardi), giudicati dagli analisti a livello accettabile. E nei primi mesi del 2011 le cose sono andate ancora meglio: il colosso degli occhiali ha chiuso il primo trimestre dell’anno con un fatturato in crescita dell’11,8 %, il risultato operativo ha avuto un’impennata del 21,1 %, mentre l’utile netto è passato da 95,1 a 114,7 milioni di euro, in aumento del 20,6 % rispetto allo stesso periodo del 2010. Luxottica pare avere davvero, come si suol dire, il vento in poppa, al punto che, per il cinquantesimo compleanno dell’impresa, da ottobre tutti i dipendenti del gruppo Luxottica riceveranno, a seconda dell’anzianità di lavoro, un pacchetto di azioni per un valore complessivo di circa 7 milioni di euro.
In un contesto che presenta notizie positive, c’è addirittura chi punta a quotarsi in Borsa. É il caso della Brunello Cucinelli, storica azienda umbra, attiva nel segmento delle lane pregiate, a partire dal cashmere, che da lavoro a 650 addetti. Dopo gli importanti risultati conseguiti nel 2010, il 2011 dovrebbe chiudersi in modo ancora più positivo, con un fatturato a quota 245 milioni (+20,65% rispetto ai 203,06 milioni del 2010), un utile ante imposte in crescita del 65,11% a 30 milioni (contro i 18,17 del 2010), investimenti pari a 17,4 milioni contro i 7,25 milioni dell’anno precedente.
Insomma è un quadro in grande evoluzione, che presenta ombre ma anche luci, quello che emerge dai dati di settore e dalla lettura di alcuni bilanci aziendali: nonostante la crisi, nonostante la concorrenza cinese, nonostante l’Europa non si decida a varare un regolamento che obblighi ad indicare il luogo di produzione dei capi messi in commercio. Ma soprattutto nonostante i governi succedutisi negli ultimi 10 anni non abbiano mai mostrato grande attenzione per un comparto fortemente evocativo del migliore “italian style” e che da lavoro a quasi mezzo milione di persone.
«Politici e più complessivamente i policy maker nostrani – sottolinea con amarezza Tronconi – sono tutti pronti ad esaltare pubblicamente il “made in Italy”, ma poi, interiormente, sono ostaggio di una convinzione di matrice anglosassone, secondo cui le economie debbano evolvere sui servizi e il manifatturiero sia destinato a essere spostato nei paesi in via di industrializzazione: questo è un tragico errore, perché la produzione industriale, essa stessa generatrice di servizi, è l’ossatura di una economia sana…è il 78% di export generato dal manifatturiero che mantiene in equilibrio la nostra bilancia commerciale!…Il manifatturiero ha bisogno di fattori produttivi più convenienti; e non alludo al costo del lavoro, ma in particolare ai costi energetici…una politica disattenta e – prendendo in prestito le parole di Keynes – “schiava di qualche economista defunto”, non è stata in grado di mettere in campo, negli ultimi 20 anni, alcuna politica energetica, cosicché, rispetto ai concorrenti francesi e tedeschi le nostre imprese pagano l’energia il 30% in più».
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