I comitati referendari sono convinti di aver raggiunto il numero di firme necessarie. Ora la passa palla alla Corte Costituzionale. Francesco Clementi, docente universitario di Diritto Costituzionale e membro del Comitato promotore del referendum, dialoga con Linkiesta sui temi del quesito: che interrogano il diritto, la Costituzione ma, soprattutto, la politica.
Professore, il dibattito sui quesiti referendari è particolarmente acceso: è stata definitivamente compresa la loro portata?
Faccio prima di tutto una doverosa premessa: l’intento di chi, nella loro veste di studiosi, come Morrone, Balduzzi, De Martin e, si parva licet, il sottoscritto o, di politici, come Parisi, Di Pietro ed altri, ha depositato, l’11 luglio scorso, i quesiti referendari, era tutto tranne che quello di truffare i cittadini.
Perché parla di truffa?
Perché rilevo che, nel momento in cui si sta materializzando l’obiettivo della raccolta di almeno 500 mila firme, è in corso un tentativo di condizionare l’opinione pubblica attraverso tecniche di “misleading”, diremmo noi, asserendo che in fondo quello dei referendum è un’illusione o peggio ancora quasi una petizione. E mi spiace davvero.
Non vede il rischio paventato da alcuni suoi colleghi, che questo referendum sia bocciato in quanto sarebbe più propositivo che abrogativo, facendo di fatto rivivere il vecchio Mattarellum?
Come noto, in Italia, differentemente da altri Paesi, manca l’istituto del referendum propositivo, ma bisogna considerare che l’abrogazione è per natura una modifica dell’ordinamento, una novella, come si suol dire. Ciò detto, è evidente che dietro il referendum ci sia un’azione eziologica di tipo propositivo.
Però l’abrogazione dovrebbe di fatto significare la creazione di un vuoto normativo, che spetta al Parlamento colmare…
Sul tema della riviviscenza vorrei essere molto chiaro, perché è il vero punto di caduta di questo polverone che, come dicevo, taluni vorrebbero sollevare. Su tale questione, giuridicamente assai complessa, non ci sono certezze granitiche. Al punto tale che, il nostro secondo quesito tiene opportunamente conto, nel modo in cui è stato predisposto, proprio delle maglie aperte che la dottrina sulla reviviscenza offre, e ad essa risponde adeguatamente. A maggior ragione, facendoci confidare positivamente. Inoltre, le opinioni espresse da maestri – come Alessandro Pizzorusso, Massimo Luciani o Stelio Mangiameli– dimostrano che il tema della riviviscenza è tutt’altro che chiuso. Per non parlare poi dell’esistenza anche di alcune sentenze che la legittimano.
Mi sta dicendo in sostanza che è pretestuoso, soprattutto in questa fase, l’utilizzo di certe argomentazioni a sostegno della tesi per cui i referendum non servirebbero a nulla…
Guardi, credo che sia scorretto utilizzare lo strumento dell’opinione pubblica come un’arma di pressione per influenzare il percorso giuridico del referendum, costruendo un clima nell’opinione pubblica di incertezza da qui fino a gennaio-febbraio, quando la Corte Costituzionale si esprimerà sull’ammissibilità dei quesiti. Rivendico, insomma, l’autonomia di operare liberamente nell’ordinamento, senza che alcuno dei soggetti istituzionali coinvolti possa essere neanche lontanamente influenzato da sirene esterne, a partire da quelle della politica.
Converrà che i referendum promossi hanno potenziali effetti che vanno ben al di là dei risvolti giuridici…
Certo se si intende che il referendum, oltre ad avere una natura propriamente giuridica, ha naturalmente anche un effetto politico; ma questo è proprio di qualsiasi strumento previsto nel nostro ordinamento, e dovrebbe essere escluso proprio per il referendum, istituto di democrazia diretta?
Se però il quadro politico è assai debole, l’effetto potrebbe essere dirompente…
Beh, senza immaginarsi scenari catastrofici, va detto che il referendum è uno strumento della democrazia, e che il più grande costituzionalista della seconda metà del Novecento italiano – Costantino Mortati – ha voluto e proposto con grande forza nel nostro ordinamento. E non è un caso, infatti, che il referendum ha costituito, nei punti di svolta della storia del nostro Paese, la soluzione per uscire dall’impasse di sistema.
Entriamo nel merito degli obiettivi politici dei quesiti referendari…
L’obiettivo del referendum è quello di restituire la possibilità ai cittadini di scegliere chi mandare in Parlamento, evitando che la casta parli a se stessa; e, al tempo stesso, riconnettere la rappresentanza ad un territorio, il collegio elettorale. Se penso al Porcellum, l’imperfetto Mattarellum sembra oro zecchino!
Il tanto vituperato Porcellum è però stato usato con grande disinvoltura dalle segreterie dei partiti, tanto di destra quanto di sinistra…
E’ vero, in effetti il Porcellum è uno strumento che tutti hanno denigrato, sia chi l’ha materialmente scritto e mezz’ora dopo l’ha disconosciuto, sia chi l’ha avversato fin da principio, considerandolo come uno strumento contro la democrazia, ma poi l’ha usato a piene mani.
Il doppio gioco dei partiti…
Da forte sostenitore dell’imprescindibilità dei partiti in una democrazia, nel nostro ordinamento, i partiti sono sempre stati soggetti un po’ anfibi, per certi aspetti anguilleschi. Svicolano a qualunque forma di razionalizzazione, sia riguardo alla loro natura, sia riguardo ai loro comportamenti. Questo è il problema. Il fatto di sentirsi monarchi assoluti, invece di pensare che noi siamo in un sistema poliarchico, fatto di sussidiarietà, di autonomie orizzontali, di associazioni di cittadini.
Questa sorta di doppia faccia la ritrovo, anche oggi, nel loro atteggiamento verso il referendum: fino ad un mese e mezzo fa molti lo descrivevano come una follia, ordita da pazzi-suicidi. Ora, nel momento in cui si viene a realizzare l’obiettivo della raccolta delle firme, questo si trasforma in una vittoria del sistema dei partiti, anche di quelli che poche settimane fa erano posizionati sulla linea del Piave, descrivendo l’iniziativa referendaria come un’azione dannosa, velleitaria, sterile.
Emblematico in un certo senso l’atteggiamento del Partito Democratico…
Sì, dispiace molto registrare come inizialmente abbia consentito la raccolta delle firme alle sue feste “graziosamente”, un po’ come accadde quando il Re concesse lo Statuto Albertino nel 1848; ora l’atteggiamento è molto mutato. Molto bene. D’altronde, i partiti sono fatti, in primis, dagli iscritti e non dai dirigenti. E gli elettori e gli iscritti del Pd hanno capito benissimo il nostro intento, dando un chiaro segnale alla loro dirigenza. E poi, quel partito ha costitutivamente, a partire dal nomen, queste dinamiche di ascolto…dunque, se proprio vuole, non poteva non essere altrimenti…
Se i quesiti dovessero essere accolti, che scenari si potrebbero aprire?
Che si terrebbe il referendum, a meno che non si vada al voto nel 2012, poiché questo farebbe slittare il referendum automaticamente di un anno. L’altra alternativa è che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale, abrogando il Porcellum e facendo cadere la materia del contendere. D’altronde, il referendum è lì per ricordare l’urgenza di una nuova e seria legge elettorale. Se non la faranno in Parlamento, lo faranno i cittadini votando positivamente per abrogare il Porcellum. Ma, insomma, il silenzio del Parlamento sarebbe proprio un grave errore, dopo il chiarissimo segnale che gli elettori, in primis attraverso questa sorprendente raccolta di firme in un tempo così breve, hanno dato alla classe politica.
Beh di segnali la politica dagli elettori negli ultimi anni ne ha avuti…
Questo referendum però dà un segnale per certi aspetti ultimativo: chiede che la classe politica, divenuta tale, nella gran parte dei casi, proprio grazie al Porcellum, decida per il bene di tutti di rischiare la sua poltrona. Insomma, è questo il punto vero: sono i figli del Porcellum che devono spazzar via il Porcellum, dimostrando di avere, come si suol dire, la schiena dritta…perché questo referendum è come “L’urlo di Munch” al Parlamento, che ha la possibilità -forse l’ultima- di dimostrare di saper prendere su di sé la responsabilità di rappresentare e perseguire l’interesse generale di tutti, approvando una legge elettorale secondo un verso, peraltro, assai chiaro: un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario come era appunto il Mattarellum.
Il quadro politico però è a dir poco complicato, senza considerare le tensioni terzopoliste per lo smantellamento di un sistema tendenzialmente bipolare come è il nostro o il silenzio sui referendum del sempre più loquace Montezemolo…
Siamo chiari. Non possiamo permetterci come democrazia che lo schema bipolare esca di scena, seguendo quella dell’attuale Presidente del Consiglio. Anzi, tutt’altro. Di sicuro il nostro bipolarismo è da migliorare, ma tornare alla consociazione sarebbe una follia; avrebbe un costo, innanzitutto economico ma anche culturale e dei costumi, oltre che politico, altissimo per nostro Paese. Un fatto che non ci possiamo assolutamente permettere. Dobbiamo, piuttosto, chiudere definitivamente la transizione bipolarista, migliorando le garanzie e i controlli, innanzando il livello di partecipazione, facendo capire che ai diritti invocati corrispondono i doveri praticati. Da parte di tutti. Per cui chi propone un cambiamento reale, come afferma Montezemolo, deve smettere di fare ragionamenti di corto respiro, tipo: “oggi non mi conviene una legge di tipo bipolare, perché impedirebbe la nascita di una terza polarità”, ma invece deve puntare diritto a conquistare uno dei due poli, aspirando ad essere forza maggioritaria nel Paese. Capisco che la sfida è complessa, ma la politica è complessità e, come ricordava Moro, non prevede percorsi né brevi né lineari.
Dunque?
Basta leggere quanto da anni scrivono Angelo Panebianco, Michele Salvati o Augusto Barbera.
Abbiamo bisogno di partiti con mentalità e vocazione maggioritaria, che vogliano davvero competere e contendere sul mercato delle idee, con forza e senza paure. Anche perché mi stupirei molto se, proprio un grande esperto di grandi partenze e di brucianti arrivi come Montezemolo, si acconciasse allo smantellamento del bipolarismo, sposando culturalmente la politica rinunciataria dei due forni –minoranza che prova a tiranneggiare sulla maggioranza-, invece di favorire un miglioramento della qualità del bipolarismo, l’unica strada che apre ai vincenti veri la maggioranza del paese per cinque anni. Sarebbe, a dir poco, una falsa partenza!
Per il nostro Paese Lei che sistema elettorale si immagina?
Il nostro Paese ha tre caratteristiche di fondo: è un Paese che ha bisogno di dare omogeneità politica ad una disomogeneità che, anche per ragioni storiche, ancora ci caratterizza troppo, altrimenti ci polverizziamo sempre più, cedendo ai nostri istinti più egoisti – basta pensare alla Lega nord…; è un Paese che ha bisogno di riconnettere i governanti e ai governati sulla base di una rappresentanza politico-territoriale, capace di premiare o punire chi governa, altrimenti si fa vincere l’antipolitica da un lato e la cosiddetta casta dall’altro; è un Paese che ha bisogno di governo, per evidenti motivi, ma anche per imparare che, nell’alternanza al governo e nella ricerca di proposte migliori per arrivarci, cresce la qualità della nostra democrazia, cioè dei nostri diritti. E questo non si fa da soli. Per cui, tra l’altro, più Europa in Italia, più Italia in Europa.
Riassumendo?
Queste tre istanze possono riassumersi bene dentro un sistema elettorale così congegnato: di tipo maggioritario, che consenta al cittadino di sapere che quando vota, lo fa innanzitutto per il governo; con un collegio, volendo anche a doppio turno, cosicché nel primo turno il voto possa essere per l’identità – il voto del cuore – e il secondo turno si esprima il voto per il governo, quello della ragione. Infine, proprio per evitare che nei collegi ci sia un eccessivo utilizzo delle cordate o di paracadutati, penso all’uso sistematico delle elezioni primarie, regolate per legge, come è stato peraltro già da tempo proposto. Sarebbe un buon modo per far crescere davvero i “deputati di collegio”, come scriveva allora, ai tempi del Mattarellum, anche lo stesso Massimo D’Alema sul suo manifesto a Gallipoli…
Un sistema che forzi anche uno sfrondamento della rappresentanza?
Vede, qui sbattiamo contro il paradosso di Ernst Fraenkel, per il quale le riforme difficilmente possono vedere la luce quando i riformatori coincidono con i riformati. Ciò detto, se ridurre il numero di parlamentari, trova come unica spiegazione i costi della politica, dico che siamo sulla strada sbagliata. Invece, mi trova d’accordo un dimezzamento secco dei parlamentari per ragioni di funzionalità di sistema: pochi ma buoni, e in ragione di una rappresentanza reale, come si conviene ad una democrazia maggioritaria, cioè matura e responsabile.