«Se cade l’euro, cade l’Europa». Le parole del cancelliere tedesco Angela Merkel hanno una valenza diversa dopo l’ultimo colloquio fra la Grecia e la troika composta da Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. La crisi della Grecia è in realtà la crisi dell’Europa. E le recenti indiscrezioni che arrivano da Atene non fanno che confermarlo. Secondo il quotidiano Ekathimerini il premier George Papandreou è in procinto di invocare un referendum per chiedere ai greci se vogliono o no rimanere nell’eurozona. Entro un mese, scrive la testata ellenica, il popolo greco potrebbe essere chiamato alle urne per votare e decidere autonomamente cosa fare. Due le vie: restare nell’euro e adottare le sempre più stringenti misure dettata dalla troika oppure dichiararsi insolventi e uscire dalla zona euro e cercare di ripartire con una nuova valuta. In questo quadro, abbiamo cercato di riassumere l’attuale crisi dell’eurodebito.
Grecia. L’ultimo weekend è stato il più duro per Atene. La troika ha chiesto ulteriori misure di austerity al Governo del premier Papandreou e solo in tarda serata il ministro delle Finanze Evangelos Venizelos ha dichiarato di «aver concluso un accordo con i funzionari internazionali». Sono quindici le misure previste dal nuovo piano di consolidamento fiscale, che vanno dal licenziamento di oltre 150mila dipendenti pubblici a nuove accise su carburanti, altri beni e servizi. L’obiettivo è quello di ottenere la sesta tranche del pacchetto di aiuti finanziari varato nel maggio 2010 del valore di 110 miliardi di euro. Le richieste della troika nascono, ancora una volta, da una serie di stime sbagliate da parte del Tesoro ellenico sui conti pubblici. Il rapporto deficit/Pil da inizio anno ad agosto, infatti, è stato innalzato da da 15,67 miliardi di euro a 18,6 miliardi. Inoltre, il Pil della Grecia quest’anno registrerà una contrazione del 5,5%, cioè ancora recessione. Stesso discorso per il 2012, quando secondo i calcoli del Fmi il Pil sarà al meno 2,5 per cento rispetto l’anno prima.
A peggiorare la situazione c’è lo stato di avanzamento del secondo programma di salvataggio europeo, varato il 21 luglio scorso durante il Consiglio europeo che doveva stabilizzare l’eurozona. Il piano di intervento dei creditori privati, che prevedeva un rollover (cioè un concambio peggiorativo) dei titoli di Stato ellenici, non sta funzionando come avrebbe dovuto. Sono in molti gli istituti di credito che hanno rifiutato di aderire alle linee dell’Institute of international finance (Iif), la lobby di sistema, per via dell’inefficacia di fondo dell’operazione. Troppa sarebbe stata l’emorragia ellenica, rispetto all’impegno messo in campo dalle banche. E secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) gli istituti di credito europei sono ancora pesantemente esposti ad Atene: se in giugno lo erano per 162,428 miliardi di dollari, adesso lo sono per 152,810 miliardi. Al primo posto ci sono sempre le banche francesi con 65,279 miliardi di dollari (a giugno erano 64,777), seguite dalle tedesche con 28,996 miliardi (a giugno erano 39,923). Più marginale, si fa per dire data la situazione interna, l’esposizione delle banche italiane, pari a 6,254 miliardi di dollari, in aumento rispetto a giugno, quando erano a quota 5,778 miliardi.
Restano da definire diversi punti. Il capo missione in Grecia del Fmi, Bob Traa, ieri ha detto che «Sono necessarie nuove misure per ridurre il deficit a livelli sostenibili, la Grecia ha avuto tempo e supporto per portare avanti un programma capace di consolidare i conti pubblici, ma non lo ha fatto». Dato il poco spazio di manovra che ha il Governo Papandreou, è difficile che si possano creare le condizioni in grado di soddisfare le esigenze della troika. Anche nel caso questo avvenisse, sbloccando così l’erogazione degli aiuti previsti, è altamente probabile che l’economia ellenica si contrarrebbe ancora di più. Un report di Goldman Sachs di inizio agosto sottolineava proprio questo aspetto. «Non ci aspettiamo un miglioramento della crisi greca, bensì un suo avvitamento, dato che nel piano previsto da Ue, Bce e Fmi, concordato con Atene, non ci sono misure in grado di sostenere la crescita economica», spiegavano gli analisti della banca statunitense.
L’unica soluzione sul piatto, per ora, è quella che si sta alzando sempre più come un coro all’unisono, ovvero l’uscita dall’eurozona. Oggi l’economista-Cassandra della crisi, Nouriel Roubini, ha ribadito dalle colonne del Financial Times che Atene «dovrebbe dichiararsi insolvente e lasciare l’eurozona». Solo che questa soluzione, attualmente, non è contemplata dai trattati europei. Proprio per questa ragione, circa due settimane fa, il cancelliere tedesco Merkel, seguita poi dal primo ministro olandese Mark Rutte e dal suo ministro delle Finanze Jan Kees de Jager, avevano rimarcato l’esigenza di una serie di modifiche ai trattati e l’introduzione di un alto commissario Ue per la finanza pubblica.
Tuttavia, come riportato da uno studio di UBS di alcuni giorni fa, i benefici potrebbero essere troppo pochi. L’eventuale uscita dalla zona euro della Grecia costerebbe probabilmente tra 9.500 e 11.500 euro procapite nel primo anno di secessione, più una cifra compresa tra i 3.000 e i 4.000 euro procapite all’anno per quelli successivi. In questo modo Atene polverizzerebbe il 40% e il 50% del proprio Pil solo nei primi 12 mesi di uscita dall’eurozona. Non v’è certezza che, con un’azione così radicale, la crisi dell’eurodebito si stabilizzerebbe. Anzi.
Europa. La crisi europea dei debiti sovrani, inizialmente, era confinata solo alla Grecia. Lentamente, ma non troppo, sono esplosi focolai di crisi anche in Irlanda e Portogallo. Questi tre Paesi sono stati oggetto dell’intervento della troika Ue, Bce e Fmi, che hanno sostenuto Atene (maggio 2010, 110 miliardi di euro), Dublino (novembre 2010, 85 miliardi di euro) e Lisbona (maggio 2011, 78 miliardi di euro). Per farlo, l’Ue ha dovuto indebitarsi sempre più e utilizzare la Banca centrale europea come prestatore di ultima istanza in più di una occasione. È stato creato il fondo salva-Stati European financial stability facility (Efsf), con una dotazione di 440 miliardi di euro, che però ha poteri limitati e un carattere temporaneo. Sarà infatti sostituito dallo European stability mechanism (Esm) nel corso del 2013. Nonostante ciò, l’instabilità sui mercati finanziari non si è placata. Il 21 luglio è stato discusso un potenziamento del fondo Efsf, in grado di farlo scendere sui mercati secondari al fine di intervenire nello spegnimento dei singoli focolai. Per via delle reticenze provenienti dal cuore dell’Europa, prima del 5 di ottobre il suo potenziamento non sarà messo ai voti del Parlamento tedesco. E in questo quadro, l’Europa sembra essere sempre più senza una direzione.
Usa. Gli Stati Uniti, finita l’agonia per l’innalzamento del tetto del debito federale, culminata con la perdita del rating AAA da parte di Standard & Poor’s, hanno preso a cuore la crisi dell’eurodebito. Il segretario del Tesoro Timothy Geithner era presente durante l’ultimo vertice dell’EcoFin e ha esortato i politici europei a una veloce risoluzione della crisi, tramite una maggiore integrazione fiscale. Il timore degli Usa è che possa arrivare una nuova recessione dall’Europa, capace di colpire un’America che fa i conti, oltre che con un debito elevatissimo, con una disoccupazione senza freni. Anche in questo caso, però, le parole di Geithner sono rimaste vane.
Italia. Il 20 maggio l’agenzia di rating Standard & Poor’s mette in osservazione il nostro voto, per un declassamento alla fine arrivato. Il 17 giugno l’agenzia di rating Moody’s avvisa Roma che il suo giudizio potrebbe essere tagliato. È l’inizio della crisi italiana. I numeri la spiegano al meglio. Verso la fine di giugno il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani decennali (Btp) e i corrispettivi tedeschi (Bund), storico parametro di solidità, era a quota 220 punti base. Una settimana fa è stata superata la soglia dei 400 punti base. In mezzo, ci sono state due manovre, entrambe molto criticate dall’Unione europea, ed è quasi sicuro che arrivi la terza entro la fine dell’anno. Nel frattempo, la leadership del Governo di Silvio Berlusconi si è appannata sempre più, anche in virtù degli scandali che hanno colpito lo stesso premier e il suo ministro delle Finanze, Giulio Tremonti. La credibilità dell’esecutivo italiano, secondo diverse istituzioni finanziarie, ha amplificato le criticità italiane: crescita anemica, debito oltre i 1.910 miliardi di euro, assenza di riforme strutturali, immobilismo politico. Secondo l’economista Roubini, la chiave di volta per l’Italia potrebbe essere quella di un governo tecnico. Per questa evenienza prende sempre più piede l’opzione Mario Monti.
Scenari. In un quadro così poco definito e mutevole, non si può far altro che vivere alla giornata. Da un lato ci sono le nazioni forti d’Europa (Germania, Olanda, Finlandia), che non vogliono più pagare per le spese altrui. L’elettorato in questi Paesi è stanco dei continui salvataggi europei, specie a fronte dell’aumento generalizzato dell’azzardo morale e del contagio della situazione ellenica. Dall’altro lato c’è proprio Atene. Strozzata dall’austerity e dall’inadeguetezza della classe politica interna, sta cercando di rimanere a galla, ma il sentore degli investitori è che sia solo questione di tempo. Il suo fallimento è nell’aria da diversi mesi e la sua eventuale uscita dall’eurozona non è detto che possa risolvere la crisi dell’eurodebito. Infine, nel mezzo c’è proprio l’Europa. L’obiettivo della Commissione Ue è quello di spingere sull’acceleratore dell’integrazione fiscale, anche tramite il Six-pack, un nuovo modello di governance in ambito economico. Tuttavia, data la velocità con cui si sta propagando la crisi, ogni giorno che passa il progetto di Bruxelles si fa sempre più complicato da attuare.