L’Italia ha bisogno della manifattura dieci volte più dell’America. Lo ha detto Romano Prodi, commentando un articolo pubblicato da Linkiesta. Il bisogno di rilancio della manifattura italiana sembra quantomai evidente studiando un settore e un distretto particolarmente conosciuti dal Professore: quello delle piastrelle. Un segmento produttivo tipico del made in Italy, paradigmatico della capacità dell’industria italiana di reinventarsi e di innovare e la cui vocazione all’export vale una quota di mercato rilevante nel commercio internazionale. Dalle piastrelle iniziamo il nostro viaggio nell’Italia della manifattura
Nonostante un contesto sempre più complicato, per l’industria italiana delle piastrelle, dopo anni di crisi profonda, nel primo semestre 2011, grazie al traino delle esportazioni (+3,5% tendenziale), si è confermata l’inversione di tendenza registrata nel 2010. Allora l’incremento della produzione sul 2009 fu del 5,2%: 387 milioni di metri quadrati, di cui il 90% prodotto in Emilia Romagna e l’80% nel famoso distretto di Sassuolo. Anche i ricavi ebbero per il settore un lieve aumento: le vendite complessive su scala mondiale, realizzate per il 75% all’estero, furono 412,8 milioni di mq grazie ad una ripresa delle esportazioni (+2,99%) per un fatturato assestatosi attorno a 4,6 miliardi di euro con un prezzo medio per metro quadrato pari a 10,2 euro ca.
Un settore, quello dell’industria ceramica, che ha subito negli anni un dimagrimento non indifferente: oggi conta circa 180 imprese di piccole, medie e grandi dimensioni; il numero dei forni attivi è sceso negli ultimi 4 anni a 500 unità (contro le 641 del 2007); gli investimenti dal 2000 sono passati da 340 a 220 milioni; gli occupati negli ultimi 10 anni sono calati di ca. 7 mila unità (-1243 solo nel 2010), passando da 31.400 a poco più di 23 mila. Sul fronte occupazionale va pure ricordato che negli anni di picco della crisi il 50% delle imprese italiane sono state interessate da procedure di ammortizzazione sociale, che hanno fatto salire, nel 2010, a ca. 13mila lavoratori quelli colpiti da cig ordinaria o straordinaria, ora scesi a ca. 7 mila.
L’industria italiana fa quotidianamente i conti con la concorrenza dell’emergente Cina e di altri storici competitors come Turchia, Brasile, Messico; la loro aggressività ha fatto perdere all’Italia la prima posizione a livello globale in termini di quantità prodotta. Il nostro Paese mantiene invece il primato in termini di fatturato generato: 32% del mercato mondiale contro il 20% della Cina e nella classifica 2010 delle industrie ceramiche per volume di ricavi, sono ben 8 le imprese italiane tra i primi 20 produttori mondiali di piastrelle, tra cui spiccano Marazzi Group, Gruppo Concorde, Panaria Group, Casalgrande Padana.
In Italia, come in Europa, è soprattutto la concorrenza cinese a far paura, nonostante la presenza di prodotti cinesi sul mercato sia sotto controllo. Il consumo europeo di piastrelle di ceramica è stato nel 2010 pari a 970 milioni di metri quadrati, con importazioni di ceramica cinese pari a ca. 63 milioni di metri quadrati: 5 milioni di metri quadrati in meno rispetto al dato del 2007. In Italia i rapporti sono simili: le importazioni cinesi sono state pari a ca. il 7%, ossia a ca. 30 milioni di metri quadrati.
La Commissione Europea ha imposto nel marzo scorso un dazio sulle importazione di piastrelle cinesi, accusate di dumping.
La misura, compresa tra il 32% ed il 73% e soggetta a ratifica finale da parte del Consiglio Europeo entro questo mese, è stata richiesta con forza dalla lobby dei produttori di ceramica spagnoli ed italiani. Raccogliendo qualche commento sul tema dei dazi tra altrettanti imprenditori del distretto di Sassuolo, è emerso come continui ad impressionare la rapidità nella penetrazione nel mercato mondiale delle piastrelle da parte di industrie cinesi, la cui produzione risulta concentrata nelle province di Guandong (660 milioni di mq), Fuijan (573 milioni di mq), Shandong (506 milioni di mq), Sichuan (325 milioni di mq), Liaoning (194 milioni di mq), Jiangxi (146 milioni di mq). Nelle fabbriche cinesi il costo del lavoro, che è almeno 5 volte inferiore a quello europeo, è un fattore competitivo eccezionale; ma non l’unico, visto che a questo si sono aggiunti, negli ultimi anni, impianti tecnologicamente avanzati, spesso prodotti o progettati in Italia.
Il provvedimento restrittivo nei confronti delle ceramiche cinesi è stato salutato con grande enfasi in particolare da Confindustria ceramica, l’organizzazione che associa gran parte dei produttori italiani di ceramiche.
I dazi vengono considerati uno strumento necessario a ristabilire dinamiche commerciali corrette e in definitiva a salvaguardare le vendite delle produzioni nazionali sui mercati europei. La pensa così Franco Manfredini, confermato nelle settimane scorse Presidente di Confindustria Ceramica, secondo cui “l’applicazione di dazi compensativi è una misura di riequilibrio del mercato che va verso una maggiore trasparenza e correttezza nelle transazioni commerciali, a favore del consumo consapevole da parte del cittadino europeo”.
Sarà, ma stupisce come nemmeno un economista abbia messo in guardia rispetto ai possibili effetti distorsivi di una simile misura, che oltretutto prevede una bizzarra applicazione differenziata: il 23% ai produttori cinesi che hanno collaborato alla lunga istruttoria della Commissione Europea e il 73% a quelli che invece non avrebbero cooperato. “E’ pur vero – fa notare il direttore commerciale di un gruppo ceramico di primo piano – che c’è una abnorme differenza di prezzo sulle produzioni di alta gamma, dove le nostre piastrelle possono anche costare il doppio di quelle cinesi; ma è oggettivo che i prezzi praticati dalle nostre industrie sulla restante e maggioritaria produzione non sono dissimili da quelli cinesi (attorno a 5-7 euro/mq) e che è in corso una vera e propria battaglia sul prezzo tra le stesse industrie italiane”.
Nel regolamento della Commissione si legge che è stato appurato come la crescente quota di mercato detenuta dai produttori esportatori cinesi nel periodo considerato ha coinciso con un calo degli utili dell’industria dell’Unione ed un notevole aumento delle relative scorte. Ed ancora, che l’inchiesta ha dimostrato come esista un nesso di causalità tra il pregiudizio subito dalle industrie europee e le importazioni oggetto di dumping originarie della Cina. Il puntiglioso rapporto della Commissione, istruito, è bene ricordarlo, da due consulenti rispettivamente di nazionalità italiana e spagnola, dimentica però di rilevare che il periodo considerato (aprile 2009-marzo 2010) ha coinciso con il picco più acuto degli effetti della crisi economico-finanziaria per l’industria ceramica, la cui produzione nel 2009 calò del 28,2% sul 2008, per l’ottavo anno consecutivo.
Dopo l’approvazione dei dazi da parte della Commissione Europea, ha invece esultato Adolfo Panzani, ex Presidente di Confindustria Ceramica, attuale Presidente e Amministratore Delegato del malconcio Gruppo Ceramiche Richetti; Panzani è stato il vero artefice dell’operazione di tessitura politica che ha condotto al varo del relativo regolamento UE. “I dazi – ci confessa invece il patron di una importante ceramica del distretto di Sassuolo, già dirigente di Confindustria Ceramica – rappresentano certo una conquista politica importante, nonché un’ottima risposta alla pancia dei nostri imprenditori, ma sono un campanello d’allarme per le nostre imprese, perché la crisi di identità del nostro settore comincia molto prima dell’ingresso massivo di piastrelle cinesi sul mercato!”. “Ci sono problemi decisamente più gravi della concorrenza sleale dei produttori-importatori cinesi ed alludo in particolare ai ritardi nell’elaborazione di una vera e propria politica industriale per il settore, al deficit di innovazione di prodotto, alla urgenza di ammodernare gli impianti produttivi e di aggregare le imprese, come hanno fatto alcune imprese del distretto” (Atlas Concorde e Casalgrande Padana, ndr).
“C’è ancora chi pensa che le fabbriche cinesi sfornino prodotti di bassa qualità, ma in realtà non è più così da tempo…in Cina hanno impianti – ispirati peraltro in tanti casi da tecnologia italiana! – modernissimi, che producono piastrelle di altissima qualità, anche se non di grande impatto dal punto di vista del design” . Non è forse un caso che la fiera di Forlì stia pensando di ospitare nel 2012, contro la volontà delle Regione e di Confindustria Ceramica, un salone concomitante al Cersaie di Bologna, dedicato esclusivamente ai prodotti cinesi.
“I dazi – conferma Cristiano Canotti, noto consulente di tante imprese del distretto e suo profondo conoscitore – fanno pensare effettivamente ad una battaglia, certo giusta, ma di retroguardia, un palliativo. Soprattutto se si considera che i problemi di competitività del settore sono di più ampia portata: infrastrutture logistiche oggi inadeguate seppur di fronte ad un calo di volumi del 30% rispetto ai massimi di 10 anni fa; scarsa capitalizzazione delle imprese rispetto alla ricchezza già drenata, e spesso una patrimonializzazione fatta di capannoni ed impianti non liquidabili; investimenti ormai solo incrementali in vera ricerca ed innovazione; impoverimento delle risorse umane per comprimere il fattore costo del lavoro”.
Senza considerare il decisivo tema dell’approvvigionamento energetico, i cui costi continuano ad essere troppo alti. Come fece notare un paio di anni fa l’ex Presidente di Confindustria Ceramica in una audizione avanti alla Commissione Attività Produttive, a dodici anni “dal cosiddetto decreto Letta, che doveva portare a una maggiore liberalizzazione del mercato del metano, assistiamo ancora alla presenza di un operatore dominante e all’ingessamento del mercato“.
In due anni nessun provvedimento specifico è stata assunto sul fronte del contenimento della bolletta energetica e, nel frattempo, complice la crisi, i processi di destrutturazione e ricomposizione del distretto di Sassuolo stanno facendo rapidamente il proprio corso. Ciò tra vere crisi aziendali e difficoltà aziendali “pilotate”.
Emblematico il caso di Iris Ceramica, uno dei maggiori gruppi, il cui patron Romano Minozzi, annuncia due anni fa la decisione di mettere in liquidazione la storica industria, fondata nel 1961. Si tratta di un fulmine a ciel sereno per Sassuolo e l’intero distretto. I licenziamenti annunciati sono 705. Una lunga trattativa mediata dalle Istituzioni locali evita però l’annunciata messa in liquidazione dell’azienda. Un risultato, questo, conseguito mettendo in campo un piano di risanamento e rilancio triennale, con ricorso alla cassa integrazione straordinaria e ad una integrazione al reddito di 250 euro per garantire stipendi che non scendano sotto i 1.100 euro.
Minozzi, uomo da sempre in ottime relazioni con la politica e ben visto in Mediobanca, stava dunque per rinunciare ad una delle sue creature. Il suo feeling con la Borsa e le operazioni finanziarie, invece, non è mai venuto meno. Già autore, in passato, di una serie di rilevanti investimenti (Comit, Consortium e Banco San Geminiano e San Prospero), Minozzi è a capo di una serie di scatole finanziarie (Fortifer S.A., A.T.S. Finanziaria s.r.l., Canalfin S.p.A., Finanziaria Cer. Castellarano S.p.A.) ed ha recentemente portato la sua partecipazione nel capitale di Terna al 4,858%. Operazione che ha dato nell’occhio è stata quella condotta nei confronti dell’altra sua creatura, Graniti Fiandre S.p.A., vera cassaforte dell’impero di Minozzi, ritirata dalla Borsa. Ebbene, attraverso la Finanziaria Ceramica Castellarano S.p.A., Minozzi ha lanciato un’Opa all’inizio dell’anno sulla totalità delle azioni di Graniti Fiandre, mettendo sul piatto ben 55 milioni di euro, acquisendo ogni azione a 4 euro: il 55 per cento in più rispetto alla chiusura del titolo al momento dell’annuncio dell’Opa a metà dicembre del 2010.
Per un’azienda che viene salvata, ce n’è un’altra che sprofonda. E’ il caso di Fincuoghi – 50 milioni di euro di ricavi persi tra il 2007 e il 2010, un debito di 120 milioni che ha doppiato il fatturato – messa in liquidazione lo scorso aprile. Per Fincuoghi si è fortunatamente aperta la strada dell’acquisizione da parte di Kale, colosso turco, che ha messo sul banco 23 milioni per l’acquisto e per realizzare gli investimenti del biennio 2012-13. Quasi a voler offrire un ramoscello d’ulivo ai diffidenti imprenditori sassolesi che vedono nel possibile investimenti di Kale il rischio di mettere in discussione l’italianità della piastella-valley, il Presidente di Kale ha affermato nelle settimane scorse: “abbiamo tanti amici in Italia, conosciamo molto bene la realtà sassolese e vogliamo entrarci perchè riteniamo che per Fincuoghi ci siano ottime opportunità di mercato anche in Turchia e nei paesi confinanti”.
Se la passa decisamente male la quotata Ceramiche Richetti. Il titolo, che ora viaggia attorno ai 0,2 euro, ha perso il 65% negli ultimi 2 anni e il picco di 1,5 euro raggiunto nel maggio del 2008 è un vero e proprio miraggio. L’assemblea 2011 degli azionisti di Ceramiche Ricchetti ha approvato il bilancio 2010, chiuso con una perdita consolidata di 15,8 milioni di euro, in peggioramento rispetto alla perdita di 6,5 milioni del bilancio 2009. L’indebitamento netto, vero e proprio fardello per Richetti, così come per altri gruppi, è tutt’ora a livelli di guardia: 103,1 milioni, seppur in miglioramento rispetto ai 116,9 milioni del 2009.
Sul fronte dell’indebitamento, qualche difficoltà la mostra pure il leader di settore Marazzi. ll Gruppo Marazzi ha chiuso il bilancio 2010 con un fatturato globale di 818,3 milioni di euro, in crescita del 2,2% rispetto al 2009, e un aumento delle vendite di piastrelle ceramiche del 5,2%. Al 31 dicembre 2010 l’indebitamento finanziario netto è “sceso” a 266,9 milioni di euro (298,7 milioni a fine 2009).
Un’altra grande storica industria, che sta pagando a caro prezzo concorrenza e congiuntura sfavorevole è Emilceramica, guidata da Sergio Sassi: 2 stabilimenti chiusi negli ultimi 2 anni, 150 milioni di fatturato in crescita nel 2010, contro 100 milioni di debito, che Banca Popolare dell’Emilia, Unicredit e Popolare di Verona nelle scorse settimane hanno accettato di dilazionare.
Insomma un quadro in chiaro scuro, quello che connota il distretto, il cui futuro si giocherà sulla capacità di aggredire con stabilimenti produttivi e non solo commercialmente paesi emergenti, ma anche di comprendere che l’aggregazione tra imprese è indispensabile.
“Finchè le cose andavano bene – precisa Canotti – molte aziende non hanno mai pensato di aggregarsi: piccolo è bello, meglio soli che male accompagnati…Anzi, continue spin-off, uno dietro l’altra. Questo ha portato alla situazione attuale, complice la crisi internazionale. Oggi manca nel distretto un miliardo e mezzo di euro di fatturato, perso nell’arco degli ultimi 9-10 anni, il costo medio per addetto sul territorio è di 50mila euro annui (quello medio italiano è di 30 mila). E serve andare in controtendenza: una volta ci si metteva in proprio per fare business, oggi serve aggregarsi per fare lo stesso: chi non lo fa, con le dovute eccezioni, molto probabilmente presto o tardi sparirà”.