Gli anni del dopoguerra sono stati anni di intensi scambi commerciali e di infiniti compromessi con Tripoli, sotto governi di centro, di sinistra e di destra, tutti in egual misura e senza eccezioni disposti a subire perfino delle umiliazioni per il bene delle nostre prospettive energetiche, economiche e nell’interesse nazionale. Dobbiamo essere riconoscenti alla Libia e al Colonnello Gheddafi? No, neanche per idea: tutto quello che abbiamo avuto da quel paese lo abbiamo sempre pagato a carissimo prezzo. La rivoluzione di cui il Rais è stato il motore ed emblema è costata da subito l’espulsione degli italiani di Libia ed il sequestro coatto dei loro beni e da lì è stato un fantastico susseguirsi di pretese di pagamento di danni di guerra, veri e presunti. Si è passati dal versamento di fiumi di denaro liquido alla costruzione di infrastrutture, alla fornitura di beni e tecnologie.
Abbiamo fatto tutto quanto ci è stato richiesto, pur di consentire all’Eni di scavare nel Sahara e di estrarre il pregiatissimo petrolio libico. Occorre però rilevare che paradossalmente la nostra posizione di eterni debitori morali e materiali ci ha consentito di acquisire uno status quasi monopolistico di primo partner commerciale della Libia, con diritti di estrazione quasi esclusivi e con accordi imprenditoriali che hanno stimolato grandemente l’interscambio con Tripoli a beneficio di larghe fasce produttive del paese. Ci è costato molto ma almeno il mercato libico è stato per noi un facile territorio di conquista quasi sgombro dalla concorrenza. Con il recente conflitto teso a scalzare il Rais abbiamo perso tutti i nostri privilegi.
Oggi la Libia è per noi “tabula rasa”, dobbiamo ricominciare praticamente tutto da capo. Ma con premesse assai diverse e per noi molto più sfavorevoli. Alla giovane democrazia libica (sempre se di democrazia potremo parlare) non importa nulla dei debiti di guerra, sono cose vecchie, storia di un secolo fa e non ci sarà permesso di usarli nuovamente come cavallo di Troia per penetrare quel paese. Oggi i nuovi governanti guardano con grande interesse altrove, alla Francia e all’Inghilterra, ispiratrici dell’intervento Nato e prontissime a subentrare all’Italia in vasti settori energetici e commerciali. Gioco facile, vista la poca presenza degli Italiani al tavolo delle trattative per la ricostruzione della Libia. Il nostro governo e la nostra imprenditoria non sembrano prestare abbastanza attenzione a quello che dovrebbe accadere non lontano dalle nostre coste e in questa fase cruciale siamo riusciti ad inviare in missione a Tripoli solo il presidente dell’Eni Scaroni che stoicamente sta cercando di salvare il salvabile e di non scivolare dietro ad altri nella lista degli “amici” della nuova Libia.
Sarkozy e Cameron, seppur oppressi dagli stessi nostri problemi economici e finanziari, hanno trovato il tempo e modo per andare in Libia, addirittura in accoppiata, a raccogliere, quali salvatori della patria, i frutti libici della loro filantropica bellicosità. Abbiamo assistito a scene solo poco tempo fa inimmaginabili, con un Primo Ministro britannico che arringa la piazza libica entusiasta, giubilante nell’inneggiare «viva Francia, viva Inghilterra». Nessuno ha gridato «viva Italia» durante la dimessa visita di Frattini poco tempo fa, il nostro Ministro degli Esteri ha solo trovato sui muri cittadini tanti manifesti in italiano ed arabo con scritto «L’Italia non è Berlusconi». D’altra parte come non condividere la scarsa riconoscenza dei libici? Non solo non ci siamo lanciati nella missione di bombardamento con adeguato strepito ed entusiasmo, ma perfino Obama ha finto di non accorgersi della nostra presenza, finendo per ringraziare tutti per lo sforzo militare, perfino paesi la cui partecipazione è stata risibile, come la Danimarca.
Eppure fedeli alla consegna ci siamo comportati da soldati leali e abbiamo combattuto come e più di altri, sebbene all’Italia la missione Libia sia costata più che a chiunque tra i nostri alleati. La spesa ha gravato pesantemente sul nostro già insignificante bilancio militare e ha prostrato la nostra Marina e la nostra Aeronautica ben più di quanto sia accaduto a quelle francesi e inglesi, che partono da un bilancio Difesa che è praticamente il doppio del nostro. Non solo: abbiamo messo a disposizione una flotta e molte basi aeree ed infrastrutture, dalle quali sono decollati tutti gli alleati, inclusi i due F16 danesi. E per finire, unici all’interno della coalizione, siamo stati lasciati soli a subire l’ondata migratoria generata dallo scontro, con legioni di lavoratori sub-sahariani giunti a Lampedusa in fuga.
Chi avrebbe dovuto andare in Libia a tenere alta la nostra bandiera come hanno fatto Sarkozy e Cameron? Non certo Berlusconi, bollato dai lealisti come volta gabbana e dai nuovi uomini al potere come troppo amico del Colonnello. E allora chi? Forse proprio il nostro Presidente Napolitano, sia perché è stato grande ed entusiasta sponsor politico del nostro intervento militare, sia perché avrebbe avuto la credibilità e l’autorevolezza per rammentare ai libici quale sia stato davvero il nostro ruolo nell’alleanza anti-Gheddafi e quanto sia costata all’Italia quella impresa militare in termini economici e di spaccatura politica e coesione sociale. La visita del nostro Capo dello Stato avrebbe potuto essere un potente segnale di amicizia e di rottura con i precedenti poteri e avrebbe posto il nostro paese in una posizione assai migliore nella corsa agli accordi commerciali con la Libia.
Ma così non è stato e Frattini si è dimostrato non in grado di proteggere efficacemente i nostri interessi in quel paese portando a casa vaghe e poco convincenti promesse di collaborazione. Adesso siamo in corsa con concorrenti convincenti ed agguerriti per la spartizione della torta libica e dell’intero Mediterraneo e questa è insieme ad una ferrea difesa contro gruppi di speculatori che stanno attaccando l’Italia sui mercati finanziari internazionali, uno dei veri nodi strategici per i l nostro Paese nel prossimo futuro. Tirate le somme, più volte da queste colonne abbiamo sostenuto che il bombardamento aereo da solo non sarebbe stato risolutivo della situazione tattica sul campo ed i fatti ci hanno dato ragione: Gheddafi è ancora uccel di bosco ed ora è molto probabilmente sotto protezione algerina, con la possibilità di continuare a guidare i lealisti nel loro tentativo di ribaltare la situazione.
Al sicuro oltre confine attiverà la sua rete “stay behind”, in grado di arrecare grave danno e di destabilizzare il nuovo fragile governo. Il Colonnello è un esperto di terrorismo, e sperare che molli la presa senza dare del filo da torcere a chi lo ha cacciato dal potere è semplicemente un eccesso di ottimismo. Aspettiamoci di vederlo utilizzare il suo know-how di grande patron del terrorismo mondiale per colpire gli uomini ora alla guida del paese, per altro già chiaramente indeboliti da quelle che si delineano come gravi lotte di potere interne al Cnt. Non siamo riusciti a piegarlo quando la sua vita era in pericolo sotto le bombe Nato, tantomeno lo vedremo uscire pacificamente di scena ora che è nascosto in un rifugio protetto.
*Arduino Paniccia, preside CIELS, Padova, docente di Studi Strategici, Università di Trieste