Chi è Gilad Shalit? Cosa è diventato, in quella piccola terra, cosmopolita e provinciale insieme, che è Israele? Per capirlo serve immergersi un attimo, mani e piedi, in una realtà che ha un suo specifico emotivo ben più forte degli opposti pregiudizi. In Israele, per capirci, tutti hanno fatto il militare. Tutti, uomini e donne, hanno vestito la divisa dell’esercito; tutte le generazioni ricordano una guerra; tutti hanno sentito i palestinesi e il mondo arabo come avversari sul campo. Tutti – anche i pacifisti più convinti – hanno attraversato consapevolmente anni in cui una bomba palestinese avrebbe potuto ucciderli. Tutti, in un paese fatto da circa di cinque milioni ebrei, conoscono qualcuno che conosce qualcuno che conosceva Shalit. Per questo, Shalit è tutti loro.
Così, bastava incontrare dei giovani israeliani nelle settimane immediatamente successive al rapimento del caporale Shalit per capire che quel ragazzo, inevitabilmente, sarebbe diventato simbolo di tante cose. Anzitutto, del fatto che gli incubi peggiori si realizzano. “Per anni, dopo il servizio militare svolto al confine col Libano, ho segnato che i libanesi mi prendevano e mi portavano via. Per anni mi son svegliato sudato, urlando e chiedendo aiuto” mi raccontava una volta sulla spiaggia di Tel Aviv Zeev, che oggi ha trentanni e gli incubi saranno anche passati: ma allora era fresco di triennio militare e stava solo raccattando soldi per scappare in Canada con l’obiettivo – pensava – di non tornare mai più.
Il rapimento di Gilad, quindi, realizzava una volta di più sulla pelle di uno di loro che quelle paure, quegli incubi, erano sempre pronti a diventare realtà. La durata record del suo rapimento, poi, realizzava uno scenario ancora più crudele e spaventoso: non solo la morte in giovane età, che spaventa tutte le latitudini e le culture da che l’uomo e l’uomo, ma anche la tortura, l’impotenza e la debolezza estrema di chi solo al nemico estremo può dire grazie se domani, ancora una volta, aprirà gli occhi.
Già, Gilad Shalit in questi anni, per Israele, ha rappresentato qualcosa di ancora più tragico della sofferenza di un ventenne, soldato come tutti, strappato a una famiglia, come tutte attraversata dall’angoscia della guerra permanente. Shalit ha rappresentato per cinque anni pieni un giudizio spietato su Israele, sulla sua impotenza al di là delle retoriche, sulla debolezza strutturale del paese, della sua celebratissima intelligence e del suo grande esercito.
Shalit, i video e le fotografie che arrivavano regolarmente da Gaza, hanno buttato in faccia ogni giorno agli israeliani quel che in maggioranza sanno e raramente trovano le parole per ammettere: sono una nazione ancora fragile, esposta a una violenza letale, che non si spegne, non può spegnersi, coi soli strumenti della guerra. Shalit a Gaza c’è stato cinque anni e, come ha ricordato giustamente Tom Segev intervistato oggi dal Corriere, gli 007 dello stato ebraico nulla hanno potuto. Testimonianza quanto mai chiara dell’impotenza israeliana in quel groviglio di case, macerie e rabbie che è la Striscia.
Fino a ieri, insomma, quel rapimento era il segno del fatto che la cosa più segretamente temuta, prima o poi, accade sempre. Da oggi Shalit testimonia invece che anche le storie più tragiche e buie possono avere un lieto fine, perfino in Medioriente, a patto di ammettere la propria fragilità e impotenza. Questo ha fatto, Israele, accordandosi con l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Hamas per la liberazione di 1000 palestinesi, tra cui alcuni pericolosissimi terroristi con alle spalle fatti di sangue inquietanti. Gli stessi fatti di sangue per cui – spiegano alle giovani leve dell’esercito israeliano – si rischia ogni giorno la vita a Gaza.
La storia di Gilad Shalit, insomma, è una metafora di tante cose, come spesso capita in Medioriente. La grande maggioranza della popolazione israeliana, che lo voleva a casa ad ogni costo, ci dice forse che dopo generazioni di conflitto essere più forti con le armi non basta a sentirsi sicuri. Tanto che, quella stessa popolazione che sostanzialmente compatta si schiera con le guerre al terrore, ha fatto pressione sul governo Netanyahu perché scendesse a patti col diavolo di Hamas. Hamas, dal suo lato, che conserva ancora il principio statutario della “distruzione dello stato sionista”, ne ha riconosciuto implicitamente l’esistenza e il diritto: a un prezzo alto, ma l’ha fatto.
Politicamente e giuridicamente si può discutere, e lo si farà a lungo. Ma la storia di Shalit insegna che la realtà, le emozioni di una nazione e le sue fragilità fanno la storia, e possono cambiarla. Il conflitto israelo-palestinese non è certo finito oggi, e anzi le ricadute pratiche di questa vicenda sono tutte da capire. Ma da oggi Israele ha un’arma in più: sa ammettere di essere fragile, e di avere un disperato bisogno di fare compromessi. E non è poco.