Non sarà un lavoro semplice quello che attende Enrico Cucchiani, nuovo amministratore delegato di Intesa Sanpaolo (leggi qui il ritratto del manager proveniente dal gruppo Allianz). Il colosso bancario torinese-milanese è presente con proprie controllate in 12 paesi esteri, con una rete di 1.700 sportelli, quasi 30 mila dipendenti e circa 10 milioni di clienti. Ma la parte più impegnativa del lavoro è quella che lo attende in Italia.
Innanzitutto, ci sono le questioni comuni a tutte le banche europee in questa fase: attenzione alla liquidità e alla dotazione patrimoniale. Intesa ha già portato a termine un aumento di capitale da 5 miliardi. Ma nell’eredità dell’a.d. Corrado Passera, che ha lasciato l’incarico per assumere quello di ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture, c’è anche una banca “ingolfata” da 63 miliardi di titoli di stato italiani. Una posta pari a 1,8 volte il patrimonio netto tangibile (al netto cioè dei valori immateriali come l’avviamento), e che limita di molto la capacità di sostenere adeguatamente famiglie e imprese italiane. «Oggi Intesa è una scommessa a occhi chiusi», è la definizione fulminante di un analista finanziario. Significa che le sorti di Intesa sono legate a doppio filo all’impatto sul rendimento delle obbligazioni italiane delle riforme che adotterà il governo Monti.
Fattore liquidità. Per tutte le banche europee, la liquidità e più in generale la raccolta a breve e a lungo termine, è la questione più delicata in questo momento, più ancora dei coefficienti patrimoniali. Oggi 288 dei 385 miliardi totali di raccolta al 30 settembre scorso, cioè il 73%, deriva dalla clientela retail. Aver portato a termine un aumento di capitale di 5 miliardi nella scorsa primavera, non ha messo tuttavia la banca al riparo dalla clima di sfiducia internazionale. Sebbene a ottobre siano già state coperte le esigenze di finanziamento per il 2011, nell’ultima trimestrale emerge una contrazione dei depositi dei clienti istituzionali (-5% sul secondo trimestre 2011) pari a 20 miliardi di euro. A questo contraccolpo la banca sta cercando di porre rimedio attingendo dal rubinetto Bce, a un tasso paradossalmente meno elevato rispetto alla raccolta all’ingrosso. Intesa dispone di 32 miliardi di attivi stanziabili (ossia da depositare in garanzia a fronte di finanziamenti) presso la Bce. Ma il canale della banca centrale non può certo sostituire il mercato. Per ora, l’emorragia dei depositi non ha toccato la clientela retail, sulla quale Ca de’ Sass punta per supplire alle sue esigenze di finanziamento data la contrazione dei prestiti sul mercato interbancario.
A detta degli analisti, tuttavia, la previsione del management di bilanciare gli elevati costi di raccolta della liquidità con l’innalzamento dei tassi applicati alla clientela appare ottimistica. A favore della banca, gioca il fatto di non essere stata inserita nel novero degli istituti di rilevanza sistemica dal Fsb, organo consultivo sovranazionale sulla stabilità finanziaria presieduto fino allo scorso G20 da Mario Draghi. Questo elemento, sommato all’esclusione dall’elenco delle banche a cui l’Eba, l’autorità bancaria europea, ha chiesto un aumento del capitale (Intesa ha già oggi un coefficiente patrimoniale di base del 10,2% ), hanno permesso a Intesa una certa flessibilità, che sul breve termine si è tradotta in un aumento dei prestiti (+7%) nel terzo trimestre dell’anno rispetto al 30 giugno 2011, in gran parte verso le Pmi. La variazione, però, è pressoché nulla se raffrontata con lo stesso periodo del 2010 (+0,8% rispetto al 30 settembre 2010).
Questi problemi sono però solo una premessa al lavoro difficile che attende Cucchiani. La sfida più grossa che attende il nuovo chief executive officer non riguarda singoli dossier, come l’individuazione di un partner per la propria società di gestione del risparmio (Eurizon Capital), la vendita sempre rimandata di Banca Fideuram, il caso Risanamento, i crediti concessi alla Tassara (Zaleski). O ancora la ricerca di una soluzione per l’infelice investimento in Telco-Telecom o di una via d’uscita dall’avventura Alitalia. Né, per segnare la differenza con la lunga stagione Passera, sarà sufficiente limitarsi a quelle attività che solitamente seguono l’arrivo di un nuovo manager al vertice di una banca, come la revisione approfondita delle posizioni creditizie più pericolanti, grandi, medie o piccole.
Il fronte più impegnativo per Cucchiani è la “Banca dei territori”, la divisione retail del gruppo. L’inasprimento delle condizioni generali del mercato, l’aumento della pressione competitiva, la crescente diffusione delle nuove tecnologie e il conseguente cambiamento delle abitudini della clientela (con un ricorso sempre maggiore a internet) hanno infatti reso superato il modello distributivo della banca. Per rendersene conto, basta buttare un occhio alle filiali che si incontrano per strada: le code di un tempo non ci sono più, gli uffici sono vuoti di clientela, non di impiegati.
Intesa Sanpaolo, inoltre, ha optato per un modello federale articolato su banche di territorio che oggi appare pesante e costoso. Un elefante, insomma, che pascola sul mito della banca di territorio vicina al cliente. Solo che il cliente oggi non vuole sapere di questa vicinanza: preferisce il telefono, internet, il mobile-banking. O comunque non ne ha più bisogno di questa vicinanza: gran parte dei servizi di cui ha bisogno si svolgono in automatizzato (accredito stipendio, pagamenti, utenze). Semmai ha bisogno di un servizio web semplice ed efficiente: tutto il contrario di quello che caratterizza l’approccio ancora un po’ impacciato di Intesa. Di prodotti comprensibili e facilmente valutabili: il successo dei vari conti depositi segnala che gli italiani mantengono una predilezione per il vecchio libretto di risparmio. E, per chi ha esigenze più sofisticate, di un servizio di consulenza davvero orientato agli interessi del cliente.
Troppe filiali, dunque. E troppi dipendenti per filiale. Tutto è troppo costoso. Oltre il 60% dei ricavi se ne va per mantenere la struttura operativa. Il piano prevede di portare questo dato poco al 47,8% del 2013 e al 43,8% nel 2015. Due obiettivi che erano piuttosto impegnativi già quando erano stati formulati, ad aprile di quest’anno, nel piano industriale quinquennale 2011-2015. Ma, dopo lo tsunami sul debito pubblico partito quest’estate e la revisione al ribasso delle stime di crescite, il gruppo dovrà probabilmente fare molto più per raggiungerli.
Nel piano presentato dall’ex a.d. Corrado Passera, che ha lasciato la banca per assumere l’incarico di ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture, gli obiettivi 2013 erano stati formulati ipotizzando «uno scenario macro-economico di crescita moderata». Per i due anni successivi veniva prefigurato un «progressivo ritorno alla normalità». Scenari che, allo stato attuale, sembrano destinati a rimanere tali, mentre la realtà (costi della raccolta più alti, ed economia in moderata recessione) chiede scelte più radicali, e dolorose.
Con una rete di 5.600 sportelli e oltre 70mila dipendenti, Intesa Sanpaolo dovrà prima o poi decidersi per una ristrutturazione vera e propria. Non si tratta in primis di scaricare l’effetto della crisi sui lavoratori. Semplicemente, in filiale non c’è più bisogno di 7-8 persone. Nella gran parte della agenzie che offrono servizi finanziari di massa (conti correnti, carte di pagamento, mutui, credito al consumo), ne bastano quattro. L’esempio di banche leggere come CheBanca! e Ing Direct, la cui concorrenza va a colpire naturalmente un operatore dominante come Intesa, conferma che il modello della filiale tradizionale è del tutto superato. E l’aumento generalizzato del costo della raccolta (depositi, ma anche obbligazioni), impone un profondo ripensamento. A meno di penalizzare ulteriormente una redditività che già oggi non promette molto.
È un problema che riguarda tutto il sistema, e Intesa in quanto magna pars dell’industria bancaria italiana. Non sbagliano di molto, quindi, gli osservatori che pensano che il secondo decennio di questo secolo «sarà come gli anni ‘70 per l’industria dell’acciaio» (v. la nostra inchiesta sul settore bancario italiano). Dopo il deleveraging, la riduzione della leva finanziaria attraverso dismissioni e ricapitalizzazioni, bisognerà cominciare a fare i conti con il downsizing, la riduzione delle dimensioni del sistema, con ulteriori tagli al personale e chiusura delle filiali. Da un lato, i ricavi medi per cliente, secondo uno studio condotto dalla società di consulenza Oliver Wyman, si sono contratti del 40 per cento. Dall’altro lato, il traffico di clienti privati nella filiale è già oggi basso (dieci volte l’anno in media) ed è previsto in calo.
Nel piano quinquennale di aprile Passera aveva già programmato qualche intervento al riguardo, attraverso il potenziamento dei nuovi canali (banca telefonica, internet e mobile) e il «riassetto della rete delle filiali, con interventi su almeno 1.000 filiali», attraverso accorpamenti e chiusure in caso di sovrapposizione. Da qui al 2013, in particolare, si prevede l’apertura di 100-150 nuovi punti e la chiusura di 400-500 agenzie, oltre all’evoluzione delle filiali più piccole dal modello tradizionale a un modello “base”, senza cassa e con focus commerciale.
A Cucchiani toccherà verificare se le premesse del piano Passera sono ancora valide, alla luce dei profondi cambiamenti dello scenario economico europeo, e italiano in particolare. Un rendimento dei Btp ormai oscillante attorno al 7-8% sulle scadenze dai due ai dieci anni è un fattore che pone seri interrogativi a tutto il sistema bancario. Probabilmente, trascorso un periodo di acclimatamento, il nuovo amministratore delegato dovrà mettere mano alla struttura. Solo allora si saprà se i 3 mila esuberi già concordati con i sindacati per i prossimi tre anni saranno sufficienti. O se invece, con il senno di poi, appariranno come un antipasto.
Allo stesso tempo, l’organizzazione del gruppo su base territorial-federale, con dieci banche-reti societariamente distinte (controllate al 100% dalla capogruppo) e i relativi consigli di amministrazione comporta costi elevati, duplicazioni, inefficienze. Ma questo, al momento, è un tema intoccabile. Le fondazioni azioniste (con l’eccezione di Cariplo e Compagnia San Paolo) sono infatti tutte schierate compattamente nella difesa dei loro piccoli feudi regionali, dove sopravvive ancora qualche privilegio dei tempi che furono. Dalla Carisbo al Banco di Napoli, da Carifirenze alla Cassa di risparmio del Veneto, i consigli di amministrazione sono un “salotto” ambitissimo per i potentati locali. Per fare un passo indietro, perciò, occorrerà attendere che si creino le condizioni, anche politiche, opportune. Forse la contrazione della redditività (e dei dividendi), provocata dalla crisi europea, e la necessità di agire in modo più incisivo sui costi, sarà l’unica argomentazione in grado di ammorbidire le fondazioni più recalcitranti.